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Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980 
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MasterLupo
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Messaggio Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Nel 2003 ho scritto questo breve (mica tanto!) memoriale sul terremoto del 1980, visto attraverso gli occhi del bambino che ero. Pensavo che prima o poi avrei cercato di pubblicarlo ma fondamentalmente sono troppo pigro per prendere iniziative in tal senso e, tutto sommato, di cattiva letteratura le librerie sono fin troppo piene.

Ho deciso così di pubblicarlo integralmente in questa sede, per dare modo a chi c'era di ricordare e a chi non c'era di capire cosa sia stato il terremoto per la nostra città e la nostra gente.

Un paio di spezzoni li avevo già postati in un vecchio topic: i frequentatori più attenti del forum li ricorderanno.

Di solito gli "scrittori", all'atto di pubblicare qualcosa ringraziano sempre qualcuno ed io, nonostante non sia esattamente uno scrittore, non voglio contravvenire a questa abitudine.

Grazie alla mia fidanzata che è la musa ispiratrice della mia esistenza: nonostante lei non fosse ancora nella mia vita quando ho scritto questo memoriale, in qualche modo era già ben presente nel mio cuore.

Teso'... ti amo.

_________________
"Remembering you standing quiet in the rain as I ran to your heart to be near" - The Cure "Pictures of You"


Ultima modifica di Lone il ven lug 18, 2008 3:01 pm, modificato 1 volta in totale.

gio lug 17, 2008 6:52 pm
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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Sono nato a Montreal, in Canada, nell'aprile del 1970.
I miei, come tanti avellinesi, erano emigrati all'inizio del decennio precedente in cerca di fortuna. In effetti, non è che ne avessero trovata tanta: un lavoro per entrambi, una casa in affitto, qualche risparmio e due figli. Mio fratello G. è nato nel 1963, poi io, sette anni più tardi.
Del Canada non ricordo praticamente nulla: dopo quasi dieci anni a quelle latitudini, mio padre non ne poteva più del freddo del Quebec e cominciava ad avere una terribile nostalgia del freddo dell'Irpinia (i paradossi della vita). Così, visto che anche mia madre aveva voglia di rivedere i genitori, i miei decisero di tornare in Italia e, dal 1971, sono diventato avellinese a tutti gli effetti.
Del Canada mi sono rimaste un po’ di foto che, lentamente, cominciano a sbiadire: il parco dietro casa, la Prima Comunione di mio fratello, il mio Battesimo, le imbarazzanti immagini dei miei primi bagnetti e quelle dei giochi con i cugini che oggi, ormai, sono grandi e sposati.
Mi sono sempre chiesto come sarebbe stata la mia vita se fossimo rimasti lassù, ma è una domanda oziosa che non ha senso continuare a farsi.

Sono così cresciuto nell'Avellino degli anni '70.
I miei, con i risparmi canadesi, acquistarono un piccolo appartamento in centro e lì vivono tuttora. I miei primi ricordi risalgono al '73-'74. Avellino era una sonnacchiosa cittadina di provincia con un clima realmente pestifero che, mi duole dirlo, non è cambiato affatto: freddo cane d'inverno, caldo afoso d'estate e pioggia, tanta pioggia, durante tutto l’anno. Ogni tanto, da bambino, in qualche gelido e (indovinate!) piovoso inverno, sentivo parlare in televisione del "sole del sud", del "paese del sole" e mi chiedevo di quale diavolo di sud parlassero quei pazzi, mentre, da una finestra perennemente appannata dall'umidità, osservavo l'ennesimo opprimente temporale.
Dell'afa estiva, invece, ricordo vividamente le passeggiate che facevo da piccolo, la sera, con i miei genitori lungo il Corso V. Emanuele, la strada principale di Avellino "che corre spaziosa e rettilinea", come ho letto anni dopo su una guida Touring. Ricordo il gelato al limone, le vetrine del negozio di giocattoli, meraviglioso scrigno d'inarrivabili tesori, e le soste alla bancarella dei fumetti usati, per la mia solita incetta di sogni a buon mercato. Ricordo la festa del 15 agosto, ancora oggi molto seguita, con le strade affollate di gente, le luminarie intermittenti, la processione della Madonna Assunta, la banda nella villa comunale, le bancarelle, i fuochi d'artificio ed i palloncini a forma di coniglio che ogni tanto vedevi volare via dalle mani dei bambini, verso il cielo stellato.

Oggi mi dispiace di non possedere molte foto dell'Avellino di quegli anni: di lì a poco la città avrebbe subito dei cambiamenti epocali e sarebbe stato bello e importante custodire un archivio fotografico di un mondo che sarebbe presto scomparso.

Ma naturalmente all'epoca non mi ponevo nemmeno lontanamente questi problemi: ero soltanto un bambino e, come tale, affaccendato in imprese ben più importanti, ad esempio scoprire il mondo che mi circondava, giocare a pallone, sfibrarmi in interminabili scorribande su e giù per la campagna di mia nonna e collezionare macchinine con le quali organizzavo emozionanti gare sulle piastrelle di casa. Impazzivo letteralmente per le automobili e ricordo che fin da piccolissimo ero in grado di riconoscere tutti i modelli. Più di tutte mi piaceva la Giulia, ma adoravo anche il Maggiolino che era la macchina della ditta per la quale lavorava mio padre. Ricordo che una volta la usò per accompagnarci da qualche parte ed io ero pazzo di felicità. Noi, invece, possedevamo una Fiat 850, che io, naturalmente, detestavo.
Oggi considero quella vecchia 850 un po' come il simbolo della vita ad Avellino in quegli anni: semplice, essenziale, completamente priva di fronzoli ma dignitosa, anche nel suo arrancare in salita.

Un'altra cosa che ricordo vividamente della mia infanzia è che, finché non sono andato a scuola, quasi ogni mattina, mia madre mi portava con sé a fare la spesa. Era una cosa che adoravo, innanzitutto perché mi dava la possibilità di vedere da vicino le mie amate automobili e sopratutto perché riuscivo quasi sempre a convincere mia madre a comprarmi un fumetto o una macchinina.
A quell'epoca il mercato della frutta e della verdura si teneva in Piazza del Popolo, nel centro storico della città, proprio dove, trent'anni prima, durante la seconda guerra mondiale, gli americani avevano bombardato la folla inerme provocando terribili distruzioni e la morte di centinaia di persone. Ricordo il movimento, i suoni e gli odori di quel mercato: le pizzette del forno all'angolo, i venditori di formaggi e salumi, i canti di richiamo dei fruttivendoli che, come dei muezzin con i fedeli, attiravano le massaie alla preghiera...pardon… all'acquisto. Ricordo che ogni tanto, dopo la spesa, andavamo a trovare dei parenti che abitavano non lontano dal mercato. Era una cosa che detestavo, non perché quelli mi fossero antipatici, ma perché avevo una paura tremenda del palazzo in cui abitavano.
In sostanza avevo terrore che il palazzo crollasse da un momento all'altro.
Era una cosa strana e non riuscivo a spiegarmela in alcun modo. La paura cominciava già sotto il portone: i parenti abitavano all'ultimo piano, non c'era ascensore e ricordo che salivo le scale pianissimo, cercando di farmi leggero, con il terrore che i gradini da un momento all'altro si squarciassero facendoci cadere nel vuoto. L'angoscia mi accompagnava per tutta la mia permanenza in quell'edificio e ricordo chiaramente il sospiro di sollievo che emettevo quando uscivo finalmente da quel portone. Eppure non si trattava di un rudere o di un edificio fatiscente: era un banale palazzo della ricostruzione post-bellica in normale stato di conservazione.
Solo qualche anno dopo avrei compreso il senso recondito delle mie paure.

La prima volta che m’imbattei nel concetto di terremoto avevo circa quattro anni. Ricordo con precisione il giorno esatto in cui udii per la prima volta quella parola: era una bella giornata primaverile ed io, davanti ad un balcone, alla luce del sole mattutino, stavo provando dei pantaloni che mia madre doveva accorciare. Era una cosa che detestavo e che ogni volta mi rendeva annoiato e insofferente: fermo, girati, cammina, stai dritto… una vera tortura per un bambino.
Ad un certo punto il palazzo cominciò a dondolare e la normalità di una banale mattina di primavera venne spazzata via da qualcosa di strano e pauroso.
Mia madre, gridando “IL TERREMOTO!” mi afferrò in preda al panico e mi trascinò giù per le scale in mezzo agli altri condomini che correvano anch’essi come impazziti. Naturalmente quel comportamento era il più sciocco che si potesse immaginare, poiché le scale sono notoriamente la parte più fragile e più a rischio di crollo in un edificio durante una scossa di terremoto ma, all’epoca, nessuno era informato di questi dettagli fondamentali e nessuno dimostrava il benché minimo sangue freddo. In tutta quella confusione io, che non avevo idea di cosa stesse accadendo, sballottato giù per le scale da mia madre resa isterica dalla paura, ricordo che non trovai di meglio che chiedere ripetutamente: “Mamma, che cos’è il terremoto?”.

La risposta mi fu data circa un’ora dopo quando, chiarito che si era trattato di una scossa breve e di scarsa entità, tutti eravamo tornati nelle nostre case. Non ricordo esattamente cosa mi disse mia madre, ma ricordo che le chiesi se un terremoto potesse spaccare le montagne: “Se è molto forte”, mi disse lei e io mi misi alla finestra della cucina ad osservare Montevergine, la montagna di 1400 metri circa che sovrasta Avellino, immaginando, con angoscia mista a meraviglia che un terremoto potesse spaccare in due una cosa così grande.

A quei tempi non c’era una percezione chiara del rischio sismico in provincia di Avellino, quantomeno non da parte della gente comune. In realtà l’Irpinia aveva alle spalle una lunga serie di eventi sismici che, nel corso dei secoli, l’avevano più volte devastata. Particolarmente spaventoso sembra essere stato il terremoto del 1456 ma, anche in epoca più recente, nel 1930 ad esempio, eventi sismici avevano raso al suolo paesi e contrade, provocando morti e distruzione.
Purtroppo mi sono ormai reso conto che è molto facile perdere la memoria delle cose passate. Spesso è sufficiente il passaggio di una ventina d’anni: chi ha vissuto un evento tragico come un terremoto tende a rimuoverne il ricordo e, con esso, il dolore che lo accompagna, mentre le nuove generazioni sono del tutto inconsapevoli di quello che è stato e di quello che potrebbe di nuovo essere. In linea di massima ad Avellino l’atteggiamento generale nei confronti del terremoto era di una beata incoscienza. L’ultimo evento sismico importante si era verificato nel 1962, ma aveva riguardato soprattutto l’arianese e non aveva creato problemi in città. Il sisma del 1930, molto più forte, era ormai troppo lontano: i vecchi l’avevano dimenticato e i giovani non ne sapevano nulla. Nel 1976 un forte terremoto colpì il Friuli: in tv seguivamo con spavento le terribili immagini di macerie, morti e persone rimaste senza tetto ma nessuno immaginava che quello che stavamo guardando ci riguardasse molto da vicino. Ricordo che ai tempi circolava una demenziale teoria, secondo la quale la provincia di Avellino non fosse sismica a cagione della sua conformazione montagnosa che, si diceva, avrebbe frenato le onde telluriche. Che questa fosse una palese assurdità era ovvio anche per il bambino che ero allora, ma ricordo che mi rincuorai sentendo quella storia e forse l’unico scopo per il quale era stata messa in giro era proprio l’ingenuo tentativo di esorcizzare la paura di ataviche memorie.

Per la verità, noi bambini non avevamo molto tempo da dedicare a questi angosciosi pensieri, soprattutto con l’Avellino che lottava per la promozione nel campionato di calcio di serie A.
Dopo una lunghissima militanza nei campionati di serie C, finalmente, nel 1973, l’Avellino si era guadagnato la promozione in serie B e in quel campionato si era barcamenato per alcuni anni con dignitosi risultati. La prima volta che vidi l’Avellino avevo quattro o cinque anni e mio padre volle portarmi per la prima volta allo stadio. Vincemmo 3-0: al secondo goal capii il meccanismo dell’esultanza e saltai in piedi a gridare di gioia, minuscolo in mezzo al tripudio della curva in festa.
Da allora, non ho mai smesso di esultare ad ogni goal della mia squadra.
Gli onorevoli risultati conseguiti fino ad allora dai nostri eroi di provincia impallidirono però di fronte a quello che accadde nel campionato 1977-78. Con una formazione originariamente costruita per salvarsi, l’Avellino riuscì a vincere lo scetticismo generale e a guadagnarsi la promozione in serie A. Ricordo ancora il mite pomeriggio di primavera, quando arrivò la notizia della decisiva vittoria a Genova, contro la Sampdoria, per 1-0. Ricordo la gioia, i cortei lungo il corso e le bandiere verdi che sventolavano dappertutto.

La promozione in serie A dell’Avellino non fu una semplice vittoria sportiva ma un vero e proprio riscatto sociale di una provincia interna del sud, priva di risorse economiche ed atrofizzata da un'emigrazione fitta e costante, ma gelosamente attaccata alle proprie radici culturali ed orgogliosa, nel suo isolamento montano, della propria diversità rispetto alla Campania costiera. Ricordo che all’epoca molti in Italia credevano che Avellino si trovasse in provincia di Napoli e questa era una cosa che nessuno nella mia città riusciva a tollerare. Finalmente l’Avellino in serie A sarebbe servito a far conoscere la provincia in tutto il paese, ribadirne l’individualità e cancellare l’infamante equivoco.
Oggi le cose sono in parte cambiate: i ragazzi della mia generazione sono cresciuti con il benessere economico e le manie di grandezza degli scintillanti anni ’80 e, dimenticate le proprie radici contadine e montanare, hanno ripreso la strada dell’emigrazione verso il ricco nord e hanno spesso dimenticato il dignitoso orgoglio di essere irpini, nutrito dai loro stessi genitori.
Eppure ancora adesso le vittorie dell’US Avellino hanno la capacità di rendere felici ed orgogliosi gli avellinesi, in qualsiasi parte d’Italia e del mondo la ricerca di lavoro li abbia spinti.

Iniziai a frequentare la scuola elementare nel 1976. Mi ero rifiutato di andare all’asilo e i miei genitori non avevano insistito. Del resto non ci sarebbe stato motivo: da piccolo ero un genietto, uno di quei mostriciattoli dall'inesauribile curiosità e con la capacità di memorizzare qualsiasi dato o nozione apprendesse. A quattro anni avevo imparato da solo a leggere. Ricordo con precisione il momento in cui, sfogliando un giornalino dell’Uomo Ragno, mi resi conto di essere perfettamente in grado di interpretare le parti scritte. Non so come sia stato possibile, so solo che è accaduto. In effetti, è probabile che avrei potuto scoprire di saper leggere anche prima dei quattro anni, il fatto è che non ci avevo mai provato!
Misi immediatamente a profitto queste mie inedite capacità intensificando a dismisura la già massiccia fruizione di fumetti e allargando il campo dei miei interessi ai volumi della nostra, invero alquanto magra, biblioteca. Incamerai un'ingente quantità di nozioni da due libri (che conservo tuttora in ottime condizioni) di cultura generale per ragazzi che un commesso viaggiatore, evidentemente mandato dal cielo, ci vendette una sera nel suo girovagare porta a porta. Mi appassionai all’antichità grazie ai libri scolastici di storia di mio fratello (che lui, paradossalmente, detestava) e approfondii le mie curiosità di storia e geografia grazie ai libri della mitica Grande Enciclopedia De Agostini.
Insomma, quando iniziai a frequentare la scuola, per essere un bambino di sei anni ero terribilmente colto, intelligente e, ahimé, alquanto saputello (la regressione sarebbe cominciata solo diversi anni dopo!).
Un piccolo “genio” in una scuola elementare che raccoglieva molti bambini provenienti da quartieri tutto sommato popolari di una cittadina del sud della metà degli anni ’70 non poteva certo passare inosservato ed io non fui certo un’eccezione. I miei compagni mi consideravano una specie di marziano e i miei maestri mi adoravano. La cosa mi creava indubbiamente dei vantaggi ma, nell’insieme, non mi esaltava. Una volta, in terza forse, presi un otto, invece del solito imbarazzante dieci, e ricordo che ne fui quasi contento.

I primi quattro anni delle elementari fuggirono via, nella bambagia che la mia condizione di primo della classe mi consentiva, senza lasciarmi ricordi di avvenimenti di particolare pregio.
Paradossalmente di quel periodo serbo in prevalenza i pochi ricordi sgradevoli. Una volta, in prima, io e il mio compagno di banco subimmo un patetico tentativo di sequestro da parte dei due bulli della classe (con i quali, peraltro, di norma ero in ottimi rapporti) che pretendevano da noi l’estorsione di un certo numero di panini (sottilette e maionese!) per il giorno dopo. Come prevedibile, spifferammo tutto alla maestra che il giorno dopo somministrò (prassi comune per l’epoca) ai due malcapitati bulletti una tale quantità di sberle da impressionare persino noi ricattati.
Forse fu per vendicarsi della sonora legnata che, un’altra volta, le due pesti della classe, approfittando di un filone in un tiepido pomeriggio di primavera (facevamo il turno pomeridiano in quel periodo), scagliarono nella nostra finestra aperta al pianoterra, due notevoli cacche di cane, gettando lo scompiglio in aula e le basi per una nuova consistente punizione che sarebbe arrivata, puntuale, il giorno dopo. Un’altra volta, la nostra isterica maestra della terza elementare (cambiavano ogni anno), fermamente convinta che uno di noi avesse rubato le sue chiavi di casa (!), ci tenne in classe per una mezz’ora oltre il normale orario e provocò delle comprensibili ma un po’ eccessive crisi di pianto in qualcuno dei compagni. Le chiavi furono naturalmente ritrovate dove lei le aveva lasciate, nell’ufficio del direttore.
Un altro ricordo fastidioso risale alla quarta elementare, quando nel corso di una partitella di calcio con una palletta di carta ricoperta di scotch, durante la ricreazione, ciccai clamorosamente un rigore sotto gli occhi delle mie compagne e, soprattutto, della giovane e deliziosa maestra Caterina, della quale ero un po’ innamorato. La cosa mi secca parecchio ancora adesso.
Un’altra volta, in seconda credo, capitò in classe una supplente che non ci conosceva e che, quindi, non aveva idea della mia condizione di privilegiato primo della classe. Quel giorno io ero un po’ vivace e la supplente era evidentemente decisa ad introdurre la corte marziale in aula. Per farla breve, mi tirò tre o quattro sonori ceffoni ai quali non ero quantomeno preparato. Quella volta fui io a scoppiare in lacrime.

Oggi è facile stupirsi del frequente ricorso alle punizioni corporali delle quali, fino a pochi anni fa, si è continuato ad abusare, ma bisogna tenere presente che queste erano considerate, nella comune coscienza, una normale prassi educativa e, come tale, accettate, se non addirittura incoraggiate dai genitori. Quanti guasti e/o benefici tutte queste sberle abbiano causato nei bambini nel corso delle varie generazioni, francamente lo ignoro.

Per fortuna c’era la tv a riempire i nostri pomeriggi di sogni in bianco & nero.
Certo, le poche ore di offerta televisiva dei due soli canali dell’epoca non possono competere con l’enorme quantità di proposte odierne, ma è certo che da un punto di vista qualitativo i programmi dell’epoca fossero semplicemente eccezionali. La pubblicità, infinitamente meno invasiva di quell'attuale, costituiva, con Carosello, uno spettacolo a se stante. Gli sceneggiati erano spesso indimenticabili: ricordo ancora oggi la Baronessa di Carini, con Ugo Pagliai, che inchiodò davanti al video mezza Italia che attendeva spasmodicamente ogni settimana la nuova puntata. I grandi film in bianco & nero non erano, per ovvi motivi, confinati al palinsesto notturno delle attuali tv e mio fratello ed io potevamo goderci alle 20,30, alla fine dell’odiato telegiornale, i film di Alfred Hitchcock, i grandi western di John Ford e gli splendidi giallo-rosa dell’Uomo Ombra con Tyrone Powell, la deliziosa Myrna Loy e la cagnetta Asta. I primi programmi musicali per giovani erano seguitissimi ed io ricordo con rimpianto e nostalgia la bella Stefania Rotolo che conduceva uno di essi. Cominciavano ad arrivare in Italia le prime sit-com, inglesi o americane, come “Un uomo in casa” o “Happy Days”, primi avamposti della (graditissima) invasione degli anni ’80 e ’90. Seguivo con tale accanimento quei telefilm che, ricordo, una notte sognai un'intera puntata (inedita! Totale parto della mia mente!) di “George & Mildred”, con tanto di perfetti tempi comici e risate nel sonno. La tv dei ragazzi, inoltre, all’epoca era davvero tale, con bellissimi programmi come “Il Dirigibile”, con Mal e Maria Giovanna Elmi o la splendida serie sulle straordinarie avventure di Saturnino Farandola, con Mariano Rigillo e Donatina De Carolis. I cartoni animati erano tanti e davvero fantasiosi: oltre alle classiche produzioni americane, ricordo tanti ottimi prodotti europei, come Viki il Vichingo o la Famiglia Mezil, e molti splendidi cartoni italiani, come il Signor Rossi di Bozzetto o Nick Carter di Bonvi, che erano programmati su Rai Due, in prima serata durante “Gulp! I fumetti in tv”. Una vera rivoluzione fu portata dai cartoni giapponesi: io e mio fratello restammo sconvolti davanti alla prima puntata di “Goldrake” e, probabilmente proprio da quei folgoranti cartoni è nato lo sviscerato amore della mia generazione per il Giappone. Un'ulteriore rivoluzione fu portata dalle prime televisioni private. Ricordò che un antennista installò a casa nostra Tele Capodistria: la programmazione non era eccezionale, ma ero talmente entusiasta della novità che non mi perdevo una sola partita del campionato jugoslavo. Guarda caso, già all’epoca i tifosi delle squadre serbe e croate se le davano di santa ragione: forse non sarebbe stato difficile, con un po’ d’attenzione, prevedere quello che sarebbe successo quindici anni dopo.
Alla fine degli anni ’70 l’etere televisivo cominciò già ad essere affollato: il bello (si fa per dire) doveva ancora venire.

Negli anni ’70 i miei nonni paterni vivevano nei pressi del centro storico, in Via Due Principati, una traversa di Piazza Libertà, il grande slargo dal quale partiva il Corso, la strada principale di Avellino. I nonni C. e L. erano stati con noi in Canada e con noi erano tornati in Italia. Abitavano in uno strano palazzo, degli anni ’50 credo, stretto, alto e schiacciato in mezzo ad una fila d'edifici simili. Non c’era ascensore e le scale erano scarsamente illuminate da un oscuro cortiletto che fungeva anche da legnaia, poiché nel palazzo non c’erano termosifoni e ciascuno provvedeva con stufe a legna e a gas. L’appartamento affittato dai nonni era al quarto piano ed era composto da cucina, bagno, un lungo e buio corridoio e due grandi camere dalle pareti perennemente annerite dall’umidità, nonostante i continui tentativi di tinteggiatura. Ricordo che il soffitto era altissimo o almeno così sembrava al bambino che ero all’epoca. Nell’insieme non amavo granché la casa dei nonni: era vecchia, buia, scomoda e fredda, eppure mi affascinava per una sua stranissima peculiarità. Si trovava contemporaneamente al quarto e… al primo piano! L’edificio, infatti, era alto cinque piani ma sul retro confinava con una sorta di terrapieno che arrivava al terzo. In sostanza l’appartamento dei nonni da un lato aveva un balcone alto quattro piani sulla strada, dall’altro invece affacciava pochi metri sul terrapieno che era diviso in giardini pensili ed orticelli. Mi sono sempre chiesto come vivessero (e come vivono tuttora!) gl’inquilini fino al secondo piano, che in metà della loro casa prendevano luce solo dall’oscuro e tetro cortiletto: l’idea ancora oggi mi fa rabbrividire.
Ricordo che nelle calde sere d’estate giocavo a passare da un balcone all’altro, dalla vertiginosa altezza della camera dei nonni al quasi pianoterra della stanza da pranzo. Mi sembrava di entrare in un’altra dimensione. A volte sedevo sul balcone che apriva sul terrapieno e osservavo le persone che vivevano sul lato opposto, nei palazzi che affacciavano su Via Cascino. Osservavo le loro ombre attraverso le finestre delle cucine illuminate dai neon, l’affaccendarsi delle donne, gli uomini stanchi dalla giornata di lavoro che attendevano la cena, l’ombra di una ragazza che si preparava per uscire, i giochi dei bambini su qualche balcone. Sentivo i loro schiamazzi nella quiete della sera, il rumore delle stoviglie che urtavano fra di loro, qualche risata o un pianto. Osservavo e ascoltavo tutto ciò, affascinato da quante vite, da quante storie, da quanti possibili intrecci si nascondessero dietro quelle tendine socchiuse, mentre attorno a noi la sera d’estate ci cullava col canto dei grilli.
Ricordo che mia nonna L. non sopportava i grilli: secondo una sua superstizione il loro frinire era in realtà il canto delle anime dei defunti.
Forse non aveva tutti i torti… di lì a poco i grilli avrebbero cantato in maniera assordante.

Mia nonna materna, invece, viveva in campagna, in una contrada rurale della città, non molto lontano da casa mia.
Adoravo scorrazzare su e giù fra i noccioleti e oggi posso dire tranquillamente che i più bei ricordi della mia infanzia risalgono a quelle giornate d’estate passate in campagna. Nonna E. divenne vedova nel ’76, quando mio nonno morì dopo una lunga malattia. Di lui serbo pochi e nebulosi ricordi di un uomo introverso, molto sensibile, incupito dalla lunga malattia e dalla consapevolezza che non ce l’avrebbe fatta. Sua moglie, mia nonna, era una donna eccezionale, forte, volitiva, capace di un amore e di una dedizione totale nei confronti della sua famiglia ma anche dura e vendicativa con l’estraneo che avesse osato farle qualche torto. Io le ero molto legato ed ero felicissimo ogni volta che potevo andarla a trovare: è stata il vero punto fermo della mia infanzia, sempre presente quando avevo bisogno di lei. Da piccolo ero piuttosto cagionevole: incappavo spesso in bronchiti e problemi respiratori e non so quante volte mia nonna si sia alzata prima dell’alba per anticipare i lavori in campagna e venire a casa mia, verso le otto, per l’iniezione di penicillina. Era un'instancabile lavoratrice, una donna coraggiosa e una persona ottimista e dotata di un dissacrante senso dell’umorismo. Conosceva, senza crederci troppo, anche qualche pratica magica e, una volta, mi tolse un malocchio con una strana litania e facendomi ripetutamente il segno della croce sulla fronte. Un’altra volta, il giorno di Natale, s’incendiò la canna fumaria del suo focolare. Fu lei, all’epoca quasi settantenne, a spegnere le fiamme arrampicandosi sul tetto della casa con dei secchi d’acqua. Ricordo la sua presenza forte e rassicurante e la sua franca e aperta risata.
E’ morta nel ’99 e io non la dimenticherò mai.

Dall’altro lato della casa colonica nella quale viveva mia nonna, abitava un’anziana coppia di lontani parenti. Loro nipote P., poco più piccolo di me, è stato, fino all’inizio della nostra adolescenza, il mio migliore amico, nonché compagno di scorribande estive su e giù, lungo le terrazze coltivate a nocciole delle campagne dei nostri nonni. Ricordo ancora quando il pallone ci sfuggiva lungo la strada che scendeva la collina fino all’orto e noi lo rincorrevamo a perdifiato per poi correre di nuovo sopra per ricominciare a giocare. E’ proprio vero che la vitalità dei bambini è assolutamente inesauribile: noi eravamo in un eterno e perpetuo movimento per intere giornate senza risentire minimamente della stanchezza.
Oggi, nonostante sia diventato un ottimo camminatore, non sarei in grado di sprigionare nemmeno un decimo della vitalità dell’epoca e questo, assieme ai primi capelli bianchi, mi ricorda inesorabilmente che sto invecchiando.

Può sembrare strano, ma l’odore che mi viene spontaneo collegare a quelle estati tra i noccioleti di mia nonna è l’aspro aroma delle foglie bruciate.
La raccolta delle nocciole comincia a Settembre e ancora adesso è fatta quasi totalmente a mano. Per questo, è necessario che il terreno sia tenuto costantemente sgombro da foglie e rami secchi che potrebbero intralciare le operazioni. Fin da luglio, quindi, il suolo è rastrellato accuratamente e le foglie, accatastate in un punto, vengono bruciate non appena scende la sera. Dopo un'iniziale fiammata, il fuoco si trasforma in brace e inizia a covare sotto il mucchio di foglie, bruciandole lentamente e producendo interminabili emissioni di fumo. Le campagne attorno Avellino sono quasi totalmente coltivate a nocciole e, non a caso, il nome latino della nocciola era “nux abellana”.
Potete, quindi, ben immaginare come, dalla fine di Luglio all’autunno inoltrato, l’aria della mia città sia spesso impregnata dai caratteristici fumi prodotti dalla combustione delle foglie di nocciolo. Certe sere senza vento l’aria diventa talmente acre da mozzare letteralmente il respiro.
Questa descrizione potrebbe far inorridire, in un’epoca come la nostra contraddistinta da una maggiore sensibilità ambientale e molto più attenta di un tempo rispetto agli effetti dell’inquinamento sulla salute pubblica e da diversi anni, il Comune di Avellino si è impegnato (invero senza grande successo) in campagne di dissuasione di questa antica abitudine contadina. Negli anni ’70 in pochi si ponevano questi problemi e ricordo che, per noi bambini, era una festa quando i nostri nonni accendevano quei fumosissimi falò. Ci sedevamo attorno ad essi e, nel crepuscolo incipiente, ci raccontavamo storie di fantasmi, janare e monacielli; oppure inventavamo epici combattimenti tra i nostri bastoni di nocciolo e il fumo che ci avvolgeva o ancora tentavamo delle ingenue prove di coraggio, saltando al di sopra dei falò, a pochi centimetri dalla brace.
Oggi sono convinto che sia difficilissimo, anche per molti miei concittadini, riuscire a cogliere l’essenza vera di Avellino. Terremoti, bombardamenti, crescita demografica e cattiva gestione urbanistica hanno stravolto la città, togliendole molto della sua antica identità. Così, se un giorno visiterete Avellino, non cercate monumenti di pregio, palazzi sfarzosi o intatti centri storici. Non aspettatevi di trovare il calore, i colori e la chiassosità di altri centri del sud. La gente di Avellino è spesso introversa e scostante, ma non può essere altrimenti per una popolazione che per generazioni ha duramente lavorato nei campi e si è abituata a rifugiarsi nelle case, per sfuggire alla pioggia continua e al gelo d’interminabili inverni. Oggi, la vera essenza della mia città va cercata nel luccicare della pioggia sulle strade, nel passo affrettato dei viandanti verso casa nelle sere d’inverno e, soprattutto, nell’acre odore di fumo che impregna l’aria nei crepuscoli d’estate e che, spesso, ti mozza il respiro.

Il mio secondo incontro con il terremoto avvenne verso i sette, otto anni.
Era, se non ricordo male, la domenica di Pasqua e dovevamo andare a pranzo dai nonni paterni. Io avevo qualche linea di febbre e facevo un po’ di storie per alzarmi. Quando il palazzo cominciò ad ondeggiare ormai sapevo bene di cosa si trattasse e saltai in piedi ad abbracciare mio padre che era accanto al letto. La scossa non fu violenta e durò poco ma questa volta ebbi una gran paura. I miei decisero di andare lo stesso a pranzo dai nonni e più tardi sentimmo dal telegiornale che si era verificato un forte terremoto in Montenegro e che la scossa era stata chiaramente avvertita in tutta l’Italia meridionale. Nel pomeriggio dai nonni avvertii una scossa più lieve, probabilmente d'assestamento, e di nuovo ebbi molta paura, poi più nulla.
Provare l’esperienza di un terremoto, anche di una scossa leggera, è un'esperienza sconvolgente. In un attimo cambia la tua percezione del mondo e della vita e ti rendi improvvisamente conto che la casa dolce casa in cui vivi trema, ondeggia e potrebbe crollare uccidendoti. Un istante prima stai pensando alle solite cose di tutti giorni e un momento dopo il tuo istinto di conservazione ti sta pompando adrenalina o Dio solo sa cosa in tutto il corpo, urlandoti nelle orecchie: “PRESTO SCAPPA!”.
Sono convinto che la maggior parte degli esseri umani si aggrappino alla normalità quotidiana per allontanare o esorcizzare l’idea che un giorno tutti dovremo morire. Ebbene, un terremoto è un evento che lacera il tessuto del quotidiano ponendoti direttamente di fronte alla caducità della nostra esistenza. Non a caso, una volta terminata la scossa, l’angoscia non passa ma ti accompagna per alcuni giorni durante i quali sobbalzerai ad ogni vibrazione o ad ogni vago senso di vertigine che proverai.
Quando la rassicurante normalità viene lacerata, il problema diventa quello di riuscire a riconquistarla.

Ho già raccontato che la mia passione per l’archeologia e la storia antica, che dura ancora adesso, è nata quando da bambino cominciai a leggere i libri di storia di mio fratello.
La fascinazione che provavo per l’epoca greco-romana era tanto forte che divenni anche un appassionato lettore dei fumetti di Asterix.
Compravo gli albi cartonati della Mondadori in una libreria lungo il Corso e non vedevo l’ora di tornare a casa per cominciare a leggerli, perso nel loro inconfondibile odore di stampa. Conservo ancora quei volumi e, rileggendoli, oggi sono in grado di cogliere tutte le, spesso irresistibili, sfumature di satira di costume che essi contengono e che all’epoca, ovviamente, non potevo capire. Da bambino mi affascinavano perché mi davano la possibilità di osservare, anche se in forma di fumetto, delle scene di vita quotidiana dell’antichità. Questo è anche il motivo per cui adoravo, e adoro tuttora, visitare i siti archeologici. Camminare tra antiche rovine mi da’ la possibilità di fantasticare sulle persone che vivevano in quei posti, sulle loro vite, sui loro amori e sulle loro tragedie, sulla caducità delle loro esistenze e sul fatto che il loro sangue e il loro DNA, generazione dopo generazione sia diventato il nostro sangue e il nostro DNA.
Con questi presupposti, potete ben immaginare quanto grande fu la mia gioia quando, nell’estate del 1978, coronai il mio minimale sogno di visitare finalmente Pompei. Girovagammo per ore nel caldo rovente d’agosto, circondati da frotte di turisti tedeschi e americani. Vagabondai per case e terme cercando fantasmi del passato. Ero vivamente impressionato dalla tremenda eruzione del 79 d.C. e, ogni tanto, guardavo preoccupato il Vesuvio che si stagliava in lontananza. Credo di possedere ancora qualche foto di quella giornata, con la tipica dominante giallognola delle pellicole degli anni settanta. In una di esse si vede un bambino di otto anni con una maglietta azzurra e degli assurdi pantaloni rosa, seduto sugli spalti dell’anfiteatro di Pompei; raggiante ma con una lieve nota d’inquietudine nello sguardo.

Nell’estate del 1978 ci furono i mondiali di calcio in Argentina.
Era la prima edizione che seguivo visto che di quella in Germania nel ’74 non serbo alcun ricordo. Guardavo le partite con fanatica passione e mi documentavo sulle schede tecniche dei giocatori grazie all’indispensabile album delle figurine Panini.
Mi duole dire, però, che non tifavo per l’Italia. Gli anni ’70 erano infatti gli anni del cosiddetto “calcio totale” praticato dalle squadre olandesi ed io, che fin da piccolissimo avevo seguito “Eurogol”, la rubrica Rai di calcio europeo, ero letteralmente innamorato dell’Ajax, la massima espressione di quel tipo di calcio. Nel ’74 l’Olanda era stata battuta in finale dai tedeschi padroni di casa e quattro anni dopo, ormai quasi alla fine del suo glorioso ciclo, la nazionale arancione si presentò in Argentina tra le favorite, superando senza particolari problemi le fasi eliminatorie. In semifinale incontrò l’Italia che, fino ad allora, aveva giocato davvero bene, arrivando persino a battere i padroni di casa argentini. Era l’Italia di Bettega e Causio, forse la più forte che io ricordi e avrebbe meritato la Coppa del Mondo. Ma all’epoca ero un bambinello che amava fare il bastian contrario e, lo dico con dispiacere, feci un tifo sfegatato per l’Olanda, deprimendomi al goal con cui l’Italia passò meritatamente in vantaggio e saltando dalla gioia alle due reti con le quali gli “orange” ribaltarono il risultato. Gli azzurri persero anche il terzo posto con il Brasile ma la cosa m’interessava poco perché era arrivato il momento della finalissima Argentina – Olanda. Per l’occasione ricordo che avevo preparato una bandierina di carta con i colori dell’Olanda, con la quale feci un tifo scatenato.
Purtroppo fu tutto inutile: l’Argentina del grande Mario Kempes vinse 3 – 1 e divenne campione del mondo. Per la seconda volta consecutiva l’Olanda aveva perso una finale mondiale contro la padrona di casa e, finita ormai la sua epoca di grandezza, entrò in una crisi di gioco e risultati dalla quale riuscì a venire fuori solo una decina di anni dopo.
L’Argentina entrò invece nel novero delle grandi e vi rimase per molti anni, grazie a Diego Armando Maradona.
La tv trasmise scene di grandi festeggiamenti per le strade di Buenos Aires ma, per l’ipocrisia imperante all’epoca, non azzardò minimamente a raccontare ciò che stava succedendo nell’opprimente cono d’ombra della dittatura militare. Solo molti anni dopo avrei saputo dei dissidenti torturati nella quiete apparente di casette di periferia, degli esseri umani narcotizzati e buttati dagli aerei in pieno oceano Atlantico, delle madri della Plaza de Mayo che, dopo tanto tempo, invocano ancora giustizia per la scomparsa dei loro cari. Ancora di più, mi è insopportabile l’idea di quei neonati sottratti alle vittime della dittatura che sono cresciuti inconsapevolmente come figli di quegli stessi carnefici che hanno violentato, torturato e ucciso i loro stessi genitori.
Ricordo ancora il grido di gioia di Kempes quando segnò il terzo goal che diede definitivamente la vittoria dei mondiali all’Argentina. Ricordo il suo grido di gioia e quello di tutto lo stadio, ma, per quanto forte possa essere stato quel grido non potrà mai, per quanto mi riguarda, coprire il flebile lamento di una ragazza torturata.

Oltre che per le terribili dittature militari in Sudamerica, gli anni settanta furono indubbiamente un decennio caratterizzato da tanti problemi e inquietudini sociali che fiancheggiano molti dei miei ricordi, seppure restando spesso solo sullo sfondo di essi.
Il terrorismo, ad esempio, fu una caratteristica evidente di quegli anni.
Ricordo, nel ’78, i giorni del sequestro Moro. Non ero evidentemente in grado di comprendere la gravità della situazione ma riuscivo comunque a percepirne il soffio gelido nell’aria. Ricordo la mestizia della mia maestra Maria, il giorno in cui arrivò la notizia del ritrovamento del cadavere dello statista.
L’Italia, in quegli anni, bruciava di un fuoco che un bambino poteva al massimo vagamente percepire e che, solo oggi, l’adulto che sono diventato è in grado di comprendere in pieno. Il caso Moro, la strage di Piazza della Loggia, l’assassinio di Alceste Campanile, l’abbattimento dell’aereo dell'Itavia nei pressi di Ustica, i continui scontri tra estremisti erano cose assai lontane dalla mia sonnacchiosa cittadina di provincia, eppure l’eco di esse mi raggiungeva, turbando i miei sonni tranquilli.
L’episodio di terrorismo che ricordo con maggiore angoscia è sicuramente la strage della stazione di Bologna, nell’Agosto 1980. Un massacro come quello non può essere ignorato, nemmeno da un bambino di dieci anni. Ricordo che la sera di quell’orribile giorno ero con mio padre sul balcone e gli facevo un sacco di domande su quello che era successo. Lui mi rispondeva come poteva e ricordo vividamente che la quiete di quella notte d’estate mi sembrava gravida di minacce.
Oggi so che lo scopo del terrorismo è proprio quello di seminare il panico nella popolazione e devo dire che nel mio caso quell’attentato raggiunse indubbiamente il fine che si era prefisso. Dopo un po’, infatti, cominciai a provare il terrore che il silenzio della sera fosse improvvisamente squarciato da una tremenda esplosione che avrebbe devastato il mio palazzo, annientando le nostre esistenze. La paura durò alcuni giorni, finché la vita riprese il suo corso normale.
Gli anni ’80 erano cominciati male: di lì a poco sarebbero continuati peggio.

Nel Settembre del 1980 iniziai la quinta elementare.
Finalmente avevo un’età a due cifre e l’anno successivo avrei cominciato le medie. Un nuovo decennio era iniziato e tutti eravamo curiosi di vedere cosa ci avrebbe portato. Per noi ragazzini, eccitanti novità iniziavano ad intravedersi. La magra programmazione televisiva del decennio precedente era, ormai, solo un ricordo. Decine di emittenti private stavano riempiendo l’etere di fantasmagorici cartoni giapponesi e cominciavano a diffondersi le tv a colori.
La definitiva e capillare diffusione delle radio private, nella seconda metà dei settanta, aveva già profondamente modificato le abitudini musicali dei giovani italiani che, dopo la rivoluzione del punk, stava scoprendo i nuovi suoni sintetici e post-moderni della new wave.
L’elettronica stava per fare un ingresso massiccio nella vita quotidiana.
Proprio nel 1980 l’azienda inglese Sinclair commercializzò lo ZX80, il primo home computer della storia, in bianco e nero e dotato dell’incredibile memoria RAM di 1kb! Subito dopo fu la Commodore a lanciare sul mercato il Vic20 e gli home computer si avviarono trionfalmente ad entrare in tutte le case.
La rivoluzione elettronica, del resto, già da un paio d’anni, aveva fatto capolino nelle sale giochi: accanto ai flipper e ai biliardini erano infatti apparsi i primi videogames. Prodigi elettronici come il VideoPong (due mattoncini che si ribattevano una pallina da una parte all’altra dello schermo) o pietre miliari come lo strabiliante Space Invaders (un cannoncino con il quale bersagliare dei mostriciattoli alieni), tutti rigorosamente in bianco e nero, oggi possono far sorridere i ragazzini abituati alle grafiche 3D a centinaia di bit e a navigare su internet come se niente fosse, ma bisogna considerare che, all’epoca, la possibilità d’interagire con un cursore elettronico era qualcosa che non si era mai vista durante la nostra infanzia popolata dalle astronavi di plastica di “Spazio 1999”.
Noi bambini comprendemmo subito che era cominciata una rivoluzione che avrebbe avuto conseguenze fantastiche ed imprevedibili e vi aderimmo immediatamente con grande entusiasmo. Non così fu per le generazioni precedenti la nostra che, non avendo vissuto tale rivoluzione da bambini, non si sono mai affezionati ai video giochi. Mio fratello, ad esempio, appassionato giocatore di flipper e calcio balilla, non si adeguò mai alla novità, si ritirò sdegnato dalle sale giochi e, ancora adesso, mi osserva con disprezzo quando mi dedico a qualche videogame.
Nel 1980 eravamo tutti convinti di essere entrati in un’epoca nuova e la nostra ansia di futuro era ben testimoniata dai massimi successi del cinema di fantascienza di quegli anni: “Guerre Stellari” uscì nel ’77, “2001: odissea nello spazio” nel ’79, come del resto anche “Incontri ravvicinati del terzo tipo” e “Alien”, mentre “1997: fuga da New York” sarebbe uscito nell’81 e “Blade Runner” nell’82.
Nel Novembre 1980 uscì nei cinema italiani “L’impero colpisce ancora”, il sequel di “Guerre Stellari”. Tanto grande era l’attesa generale per questo film che si decise di organizzare delle proiezioni mattutine per i bambini delle scuole elementari di Avellino, accompagnati dagl’insegnanti. Anche la mia classe fu accompagnata al cinema “Partenio” a vedere il film ed io non dimenticherò mai quella giornata, né del resto quelle che seguirono: era il 22 Novembre.

La prima cosa che ricordo di quello strano giorno è il caldo.
Ho già detto che Avellino è una città fredda e, di solito, a fine Novembre il clima è già abbastanza rigido. In quel giorno e in quelli immediatamente precedenti non fu così: sulla città gravava un caldo insolito ed opprimente. Col senno di poi, tutti ricollegammo lo strano clima di quei giorni con quello che di lì a poco sarebbe successo e, per molto tempo, dalle mie parti abbiamo guardato con preoccupazione agli episodi di caldo insolito fuori stagione. Ignoro francamente se il fenomeno possa essere stato collegato agli eventi successivi: sappiamo ancora relativamente poco dei movimenti della crosta terrestre e di come questi possano essere previsti e i goffi tentativi degli esperti non offrono particolari chiarimenti.
L’unica cosa certa è che il 22 Novembre 1980 faceva caldo, molto caldo.
Era sabato e quella mattina ci avrebbero portato al cinema a vedere “L’impero colpisce ancora”. Davanti alla scuola qualcuno aveva distribuito dei cataloghi pubblicitari di giocattoli che noi stringevamo avidi, in attesa di poterli sfogliare per scegliere il regalo per il non lontano Natale. Il cinema era stracolmo di bambini provenienti da diverse scuole elementari di Avellino e la confusione che regnò fino all’inizio della proiezione aumentò il senso di caldo di quel giorno.
Oggi mi chiedo quanti di quei bambini nel cinema non sarebbero stati vivi due giorni dopo, ma allora nessuno poteva immaginare.
Il film iniziò, accompagnato dalle urla di gioia di tutti. Di tutti i personaggi della saga di “Guerre Stellari”, mi ha sempre lasciato freddino il protagonista Luke Skywalker, interpretato da Mark Hamil. Mi è sempre sembrato poco carismatico e privo di fascino. A lui ho sempre preferito Han Solo, interpretato da un Harrison Ford non ancora famoso. Anche in quell’occasione parteggiai spudoratamente per il personaggio non protagonista e ci rimasi malissimo quando, alla fine del film, Han Solo venne ibernato e lanciato in una capsula da qualche parte nello spazio profondo, in attesa dell’inevitabile terzo episodio della serie che sarebbe arrivato nel 1983 con “Il ritorno dello Jedi”.
Il finale mi aveva lasciato l’amaro in bocca ma, nei giorni successivi, quello sarebbe stato l’ultimo dei miei problemi.

Il 23 Novembre 1980 era domenica; una splendida domenica di sole.
Almeno all’apparenza.
L’Avellino quel giorno giocava in casa, contro l’Ascoli, una partita importantissima. L’anno precedente il calcio italiano era stato travolto dallo scandalo delle scommesse e delle partite truccate. Un paio di giocatori dell’Avellino erano risultati coinvolti nella faccenda e la nostra squadra aveva subito una penalizzazione di cinque punti, cosa gravissima per una società che, per il terzo anno consecutivo, doveva tentare, tra mille difficoltà, di riuscire a salvarsi. Per compiere il miracolo, l’Avellino aveva bisogno di sfruttare al massimo il fattore campo, raccogliendo punti soprattutto in casa, contro le dirette concorrenti come l’Ascoli. I tifosi conoscevano bene l’importanza di quella partita e, vista anche la calda giornata di sole, accorsero numerosi al campo sportivo. Lo stadio di Avellino si chiama “Partenio”, come il massiccio montuoso che sovrasta la città e che comprende anche il Montevergine, sulla cui cima c’è il famoso, omonimo, santuario. Lo stadio era stato completamente ristrutturato nel ’78 e la capienza era stata portata a quasi quarantamila spettatori. Quel pomeriggio del 23 Novembre 1980, nel sole gioioso ed abbacinante di quello strano lembo d’autunno, almeno venticinquemila persone, provenienti da tutta la provincia, andarono a vedere la strepitosa prestazione di un fantastico Avellino che travolse 4 – 2 un disorientato Ascoli.
Ho rivisto più volte la sintesi di quella partita ed è impossibile non avere i brividi al pensiero che le grida di gioia di tutte quelle persone, qualche ora dopo si sarebbero trasformate in urla di terrore, disperazione e morte.
Anche mio nonno C. andò a vedere la partita, quella domenica, nello splendido pomeriggio di sole. Allo stadio incontrò un vecchio amico e, con lui, esultò quattro volte per i goal dell’Avellino, e una per il fischio finale. Alla fine della partita, assieme all’amico, s’incamminarono placidamente verso casa, mescolati alla folla di entusiasti che ancora sventolavano le bandiere biancoverdi nell’aria calda e immobile. Arrivati in Piazza Libertà, si trattennero ancora qualche minuto a chiacchierare con le tante persone che erano state anch’esse allo stadio e ancora si scambiavano impressioni e commenti.
Si era ormai all’imbrunire e le strade si andavano riempiendo per il consueto passeggio serale. La moglie dell’amico di mio nonno aveva raggiunto il marito in piazza: le loro due figlie erano andate a fare una passeggiata per il Corso e la donna insistette per raggiungerle. Il marito non ne aveva nessuna voglia: di lì a poco sarebbe iniziato “Novantesimo Minuto” e, quindi, la sintesi di Inter – Juventus, il match clou di quella domenica. La donna insisteva e i due battibeccarono per un po’, finché non l’ebbe vinta l’uomo.
Si avviarono verso casa e mio nonno li osservò allontanarsi.
Non li avrebbe mai più rivisti.

Ore 19,34 del 23 Novembre 1980: ottanta secondi che attraversano con la velocità di un fulmine centinaia di chilometri, devastando tutto ciò che incontrano, frantumando il fragile tufo delle vecchie case, spaccando il cemento armato delle nuove, distruggendo centri storici, cancellando la memoria storica d’intere comunità, travolgendo i sogni, le speranze e le vite di duemilasettecentottantacinque persone, ferendone almeno altre diecimila, cambiando per sempre la vita di centinaia di migliaia di sopravvissuti.
Come si fa a raccontare una scossa sismica del grado 6,8 della scala Richter?
Come si fa a farlo evitando la retorica, i luoghi comuni e l’umana pietà per le vite spezzate di quasi tremila persone?
Tenterò di farlo attraverso il mio sguardo, attraverso lo sguardo del bambino che fui fino alle 19,33 di quel maledettissimo giorno e che, improvvisamente, smisi di essere circa ottanta secondi dopo.

Ogni domenica sera alle 19 la Rai trasmetteva la sintesi di una partita di serie A.
Il 23 Novembre 1980 era in programma Juventus – Inter, una classica molto attesa. Mio padre e mio fratello la stavano guardando, mentre mia madre era in cucina: aveva infornato delle castagne che ormai erano quasi pronte.
Anch’io ero in salotto davanti alla tv, ma non stavo guardando la partita. Sulle ginocchia avevo il catalogo di giocattoli preso davanti alla scuola il giorno prima e, finalmente, avevo deciso cosa avrei voluto ricevere per Natale. “L’impero colpisce ancora” mi aveva talmente coinvolto, che mi ero innamorato di una pistola spaziale e me la rimiravo, immaginando fantastici combattimenti su lontani pianeti contro strani esseri malvagi.
Devo dire che per la testa avevo anche un piccolo, grande problema: stranamente quel fine settimana non ero riuscito a risolvere un compito di matematica assegnatoci per il giorno dopo ed ero un po’ preoccupato dalle ripercussioni di quella debacle sulla mia immacolata reputazione scolastica.
Il divano su cui stavo seduto era di fronte alla finestra e, sebbene non sia in grado oggi di giurarlo, sono sicuro di aver visto un lampo di rosso violento squarciare il buio del cielo oltre le tende. Immediatamente giunse il boato, assordante come un tuono violentissimo e tutto cominciò a vibrare, ondeggiare, scuoterci come se ci trovassimo su una spaventosa giostra. Mia madre, dalla cucina, cominciò ad urlare e tutti e quattro corremmo davanti alla porta di casa, tentando di aprirla. Non ci riuscivamo: le scosse arrivavano una dietro l’altra, come potentissime onde d’urto che facevano tremare il palazzo, scricchiolare le mura, deformare gli stipiti delle porte.
La porta di casa doveva essersi incastrata e noi tentavamo disperatamente di aprirla mentre intorno a noi tutto sembrava dovesse sbriciolarsi e da ogni punto dell’appartamento giungeva il suono di oggetti di vetro che cadevano spaccandosi in mille pezzi.
In quei momenti realizzai che, probabilmente, di lì a poco sarei morto e, so bene che può sembrare assurdo e grottesco ma, mentre il terremoto ci sbatteva da una parte all’altra, la nostra vita sembrava appesa ad un filo e la porta non voleva saperne di aprirsi, non riuscivo a togliermi dalla testa il problema di matematica che non ero riuscito a risolvere.

Quando la violenza delle scosse cominciò ad affievolirsi, finalmente, riuscimmo ad aprire la porta.
Le scale erano affollate dagli altri abitanti del palazzo che fuggivano urlando. Feci qualche passo sul pianerottolo e poggiai una mano sulla ringhiera: la sentì vibrare forte e compresi che il terremoto non aveva ancora esaurito la sua violenza. Il panico generale mi coinvolse e cominciai a correre giù per le scale, perdendo una pantofola nella fuga.
Abitavo, e abito tuttora, al quarto piano e, come ho già detto diversi capitoli fa, percorrere le scale durante una scossa sismica è una pura idiozia che può costare davvero cara, ma come puoi essere tanto freddo e cosciente, a dieci anni, da mantenere la calma dopo una scossa del decimo grado della scala Mercalli?
Ricordo che l’unico, nel mio palazzo, che ci riuscì fu un anziano maresciallo dei carabinieri, che viveva al terzo piano e che, fermo come una roccia sul pianerottolo, le braccia alzate, cercò, senza apprezzabili risultati, di calmare la gente terrorizzata che fuggiva.
Nei giorni successivi avrei saputo che il Maresciallo non aveva voluto saperne di abbandonare l’edificio ed era rimasto nel suo appartamento, rifiutando sdegnosamente di accamparsi all’esterno. La moglie rimase al suo fianco, nonostante il terrore delle frequenti scosse di assestamento che continuavano a susseguirsi.
Il Maresciallo è venuto a mancare diversi anni fa: non lo conoscevo bene ma ricorderò sempre il suo coraggio e la sua figura stagliata in mezzo alle scale nel vano tentativo di calmare la folla terrorizzata.

La discesa delle scale mi sembrò durare un’eternità.
Quando, finalmente, riuscimmo ad arrivare all’esterno, mi sentii come improvvisamente svuotato e rimasi per qualche istante interdetto ad osservare la scena surreale davanti ai nostri occhi. Grossi blocchi di cemento si erano staccati dall’ultimo piano di un edificio vicino e solo per miracolo non avevano schiacciato qualche passante o gli stessi abitanti in fuga. Una densa nuvola di polvere ristagnava nell’aria e in mezzo ad essa la gente urlava e fuggiva in preda al panico ed alla disperazione. Qualcuno urlò di attraversare la strada perché dall’altro lato non c’erano edifici che sarebbero potuti crollare travolgendoci e così facemmo tutti, restando ad osservare per qualche minuto le nostre vite e la nostra banale e rassicurante normalità, che erano rimaste dalla parte opposta della strada.
La confusione era totale e nessuno realizzava con precisione cosa diavolo potesse essere accaduto. L’opinione dominante era che si fosse trattato di un terremoto ma, circolavano anche voci secondo le quali si era trattato dell’esplosione di un potentissimo ordigno a scopo d'attentato e qualcuno sosteneva che poteva trattarsi di un’eruzione del Vesuvio, ipotesi particolarmente assurda, vista la distanza di Avellino dall’area vesuviana.
Come ho già detto prima, all’epoca non esisteva una piena consapevolezza del rischio sismico in Irpinia e tutti furono colti totalmente impreparati. Non solo non esistevano piani di sicurezza in caso di calamità naturali, ma non c’erano nemmeno mappe del rischio sismico e la popolazione, di conseguenza, non era informata sui comportamenti da attuare in caso di terremoto. Inoltre bisogna considerare che nel 1980 i sistemi di comunicazione non erano quelli attuali: i telefoni cellulari e internet esistevano solo nelle pagine di qualche scrittore di fantascienza particolarmente creativo, le notizie viaggiavano sopratutto attraverso i giornali e i notiziari Rai e, a parte che di lì a poco sarebbe mancata la corrente per quasi tutta la notte, chi diavolo poteva avere il coraggio di tornare in casa a guardare il telegiornale?
Così le voci, trasportate nel vento del passaparola ed alimentate dall’impreparazione e dall’ignoranza, si susseguivano incontrollate. Cominciò a circolare la diceria che mezza città fosse stata rasa al suolo e qualcuno sosteneva addirittura che presto sarebbe arrivata la cenere e la lava dell’eruzione vulcanica. La gente cominciò ad organizzarsi per creare un accampamento di fortuna in un campo di calcetto di una scuola vicina e i miei genitori decisero che ci saremmo rifugiati da mia nonna in campagna.
Prima, però, sarebbe stato necessario tornare in casa a recuperare qualche soldo e un po’ di vestiti, giacché eravamo corsi fuori in maglietta e pantofole. La scossa era terminata dieci minuti prima e l’idea di risalire le quattro rampe di scale del nostro palazzo ormai deserto, con la spada di Damocle di una nuova scossa sospesa sulla testa, era semplicemente terrorizzante. Per fortuna nessuno pretese atti d'eroismo da un bambino di dieci anni e così furono mio padre e mio fratello, allora diciassettenne, ad affrontare l’impresa. Io rimasi con mia madre ad aspettare giù, vergognandomi come un cane di non essere abbastanza grande e coraggioso per salire quelle scale. Ricordo che osai solo entrare nel portone e osservare, lungo la tromba, le figure dei miei che salivano lentamente i gradini, terrorizzato dall’idea che potesse arrivare una nuova scossa. Sopra successe un piccolo miracolo: durante la fuga mio padre si era chiuso la porta alle spalle senza pensare a prendere le chiavi e, in sostanza, eravamo rimasti chiusi fuori. Forse a causa delle scosse, la porta non si era evidentemente chiusa del tutto, e i miei, con una semplice spallata, poterono entrare a recuperare un po’ di roba e a staccare acqua, luce e gas.
Dopo un’attesa che mi sembrò interminabile, mio padre e mio fratello finalmente ridiscesero e mia madre ed io potemmo tirare un sospiro di sollievo.
Immediatamente dopo, però, dovemmo di nuovo trattenere il fiato, perché mio padre dovette scendere nel garage a recuperare la macchina.
Il garage si trovava nei sotterranei di un palazzo vicino e occorrevano un po’ di manovre per uscire dal minuscolo posto auto schiacciato tra il muro ed un pilastro. Con il cuore in gola attendemmo il ritorno di mio padre e ci tranquillizzammo solo quando vedemmo sbucare dal vicolo gl’inconfondibili fari rotondi della nostra Fiat 850 grigia.
Il traffico intanto era impazzito, con famiglie dirette fuori città o a cercare i propri cari e ci mettemmo un’eternità a percorrere i pochi chilometri verso casa della nonna. Lungo la strada un cartellone pubblicitario avvertiva che il giorno dopo sarebbe stata in programma, alla periferia della città, l’apertura di un nuovo grande centro commerciale, il primo ad arrivare in Irpinia, e tutta la popolazione era stata invitata alla festa per l’inaugurazione.
Temo proprio che abbiano dovuto rimandarla.

La cosa più assurda di un terremoto è che non colpisce tutti allo stesso modo.
Due persone sono nello stesso appartamento e stanno guardando la tv: uno dei due va in bagno e si salva la vita mentre mezza casa crolla e l’altra persona muore. Un tizio passeggia per strada e sopravvive perché intanto la sua casa sta venendo giù. Un altro tizio passeggia per strada e muore perché un palazzo gli crolla addosso mentre casa sua, invece, non ha subito il minimo danno.
Così è la vita.
Le variazioni sul tema sono infinite. Prendete per esempio mia nonna E.: lei il terremoto del 23 Novembre 1980, grado 6,8 della scala Richter, dieci della scala Mercalli, duemilasettecentottantacinque morti, quasi diecimila feriti, circa trecentomila senzatetto, non l’ha nemmeno sentito. Quando, finalmente, riuscimmo a raggiungere casa sua in campagna, la trovammo placida e tranquilla, come se niente fosse accaduto. Ci raccontò che nel momento della scossa si trovava in visita a casa di parenti assieme al figlio minore L., all’epoca poliziotto in servizio alla questura di Avellino. Ad un certo punto, mentre stavano chiacchierando placidamente attorno a un tavolo, tutti erano saltati in piedi gridando ed erano fuggiti dall’appartamento, lasciando mia nonna a chiedersi, perplessa, il perché di tutto quel trambusto. Con somma tranquillità li aveva seguiti all’esterno dell’edificio e lì, fra la gente che fuggiva e gridava, vide, attraverso le finestre illuminate, i lampadari che dondolavano nelle case e comprese finalmente cosa fosse successo.
Mia nonna, però, non fu l’unica a non avvertire il terremoto. Molte persone che erano in macchina non si resero conto di nulla finché non scesero dall’auto e chiesero candidamente a qualcuno il motivo di tutta quella confusione; mentre molte persone che erano in macchina non si resero conto di nulla ugualmente, ma morirono, travolti dalle macerie di palazzi che vennero giù in un soffio, come castelli di carte.
Così è la vita. E la morte.


gio lug 17, 2008 6:58 pm
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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Quando arrivammo a casa di mia nonna, lo zio L. l’aveva appena riaccompagnata ed era subito partito per il paesino dell’Alta Irpinia, in cui risiedeva con la moglie e un bambino piccolo. Le linee telefoniche erano saltate, il paese distava almeno un’ora di autostrada e posso ben immaginare l’angoscia di quel viaggio nel ventre della notte.
Mia nonna non era sola: era stata raggiunta dal primogenito T., con la moglie e il bambino di quattro anni, tutti e tre ovviamente scossi ma, fortunatamente illesi. Anche il vicino che abitava dall’altro lato della casa colonica era circondato da un’ampia rappresentanza della famiglia e, fra loro, anche P., il mio amico per la pelle.
Subito, tutti facemmo capannello sull’aia, per raccontarci le rispettive esperienze. Le idee erano confuse un po’ per tutti: era ormai abbastanza chiaro che c’era stato un forte terremoto, ma tutto il resto era ignoto.
Quanto era stato forte il sisma?
Dov’era l’epicentro?
C’erano state vittime?
Quante?
Stava arrivando la fine del mondo?
Quella sera c’era una luna meravigliosa e proprio essa divenne la protagonista di una leggenda metropolitana che circolò per parecchio tempo. Moltissimi affermarono che la luna sorta quella sera del terremoto fosse rossa come il sangue e tutti associarono i due fenomeni. Che la luna fosse rossa, in effetti, è assolutamente plausibile perché è risaputo che tale colore è normale quando la luna è bassa all’orizzonte e quindi velata dal pulviscolo sospeso nell’atmosfera. L’idea che la luna rosso sangue di quella sera fosse annuncio della sventura incombente permeò con tale forza la coscienza collettiva che, per molto tempo, tutti guardarono con sospetto e preoccupazione il verificarsi del fenomeno atmosferico.
Le storie e le leggende che circolarono in quei giorni furono tantissime e andavano dai cani che più persone avevano sentito ululare disperatamente, subito prima della scossa, agli avvertimenti inascoltati di zingare e veggenti che avevano previsto il terribile disastro; dal presunto ribollire delle sorgenti, al lampo rosso nel cielo che anch’io avevo visto. Un altro fenomeno che moltissimi, tra cui mia madre, raccontarono di avere avvertito fu un fruscio, come un vento rabbioso che si era sollevato un istante prima della scossa.
E’ probabile che gli scienziati smentiscano questi fenomeni ed è altrettanto probabile che, in molti casi, abbiano ragione loro.
Una cosa è certa: non mi risulta che nessuno di loro fosse in Irpinia quella maledetta sera.

Mia nonna E. viveva in una vecchia casa di campagna ad un solo piano, costruita probabilmente alla fine dell’ottocento.
Era un’abitazione di contadini e, quindi, era scarna, essenziale ma dignitosa, con le travi di legno a vista che reggevano il soffitto e, per accedere alle stalle, una botola sul retro che, in tempo di guerra, era stata usata anche come uscita di sicurezza durante i bombardamenti alleati, ma che ormai non serviva, visto che mia nonna non aveva più bestiame. Sebbene vecchia e costruita in maniera di certo non impeccabile, la casa sembrava aver resistito abbastanza bene, anche perché non era molto alta: aveva un solo piano abitabile, al di sotto, semi-interrati, c’erano stalle e magazzini, e sopra un ampio solaio adibito a deposito, su cui poggiavano i tetti spioventi. In diversi punti della struttura erano visibili vistose lesioni ma non era possibile un’accurata stima dei danni perché la luce era andata via e non sarebbe tornata prima di diverse ore. Mia nonna accese il fuoco nel camino e la fiamma, scoppiettando, ci riportò un pizzico di ottimismo e buonumore.
Non era ancora tempo di riposarsi, però: non avevamo notizie dei nonni paterni che abitavano nei pressi del centro storico e mio padre era molto preoccupato. Decise di andarli a cercare e, assieme a mio fratello, ritornò in città con la macchina. Mentre gli altri si scaldavano al fuoco, ricordo che andai alla finestra sul retro, a guardare le prime case della città che distavano forse meno di un chilometro in linea d’aria. La scena era tetra e surreale, solo buio e silenzio, e sentii un brivido di freddo entrarmi nelle ossa.
La luce elettrica, da un secolo a questa parte, ha cambiato profondamente le nostre abitudini e i nostri comportamenti sociali. Oggi diamo per scontato che l’oscurità della notte venga rischiarata dai lampioni e dalle luci dei negozi e abbiamo dimenticato quanto possa essere terrorizzante ritrovarsi immersi nel buio. Quest’atavica condizione, quella sera, era peggiorata dal fatto che non sapevamo cosa fosse successo, che fine avesse fatto una parte dei nostri cari, se la terra avrebbe tremato ancora e altre dieci, cento, mille angoscianti domande.
Quando, finalmente, ritornarono mio padre e mio fratello, ci portarono una notizia buona e molte pessime. I nonni, a quanto pare, stavano bene: il loro palazzo era integro e, in piazza, avevano lasciato detto a dei conoscenti che non si erano fatti un graffio e che si sarebbero diretti verso casa nostra, per accertarsi delle nostre condizioni.
Le pessime notizie riguardavano il fatto che molti palazzi erano crollati. Le maggiori distruzioni si erano verificate nei pressi del centro storico. Via Generale Cascino era ridotta ad un cumulo di macerie, alcuni edifici erano crollati a poca distanza dalla casa dei nonni e Dio solo poteva sapere cosa fosse successo nei vicoli più remoti. Molti dei superstiti, fuggiti dalle loro case, si erano raccolti in Piazza Libertà, dove avevano acceso dei fuochi in attesa dell’alba e dei soccorsi.
Alla fine avevamo avuto la conferma dei nostri timori: dovevano esserci state molte vittime.
La situazione era gravissima e non c’erano dubbi che non saremmo potuti tornare a casa per parecchio tempo. I miei decisero, così, di tornare di nuovo al nostro appartamento per recuperare vestiti, coperte e anche del cibo che sarebbe tornato davvero utile, visto che fare la spesa, nei giorni successivi, sarebbe stato impossibile. La nostra 850, con a bordo i miei genitori, fu di nuovo inghiottita dal buio e io trattenni il fiato finché non tornarono, per il timore che una nuova scossa potesse sorprenderli nel nostro palazzo.
Per fortuna non accadde.
Da casa i miei portarono anche le castagne al forno che aveva preparato mia madre e il loro sapore caldo e familiare donò a tutti un’improvvisa e incongrua allegria. Non avemmo modo per tutta la notte di avere ulteriori notizie: la luce continuava a mancare e mia nonna non aveva il telefono che, del resto, sarebbe probabilmente stato inutile, giacché le linee telefoniche erano sicuramente interrotte. Provammo a sintonizzare la vecchia radio ma non riuscimmo a captare che fischi e fruscii.
Con la notte era calata una fitta nebbia che sbirciavamo preoccupati dalla porta finestra. Mia zia sosteneva si trattasse dei fumi dell’eruzione del Vesuvio che ci avevano ormai raggiunto. La cosa mi sembrava alquanto improbabile ma quasi ci credetti. Per fortuna la lava non arrivò mai e, un po’ alla volta, tutti si assopirono accanto al fuoco, mentre io e mio cugino ci addormentammo nel letto che usava mio zio quando era di turno in questura e dormiva da mia nonna. Ricordo che caddi ben presto in un agitato dormiveglia, denso di sogni strani e, ad un certo punto, mi ritrovai a scuola a scherzare con i miei compagni.
Il terremoto non c’era mai stato, non sapevo nemmeno bene cosa fosse un terremoto, dovevo averlo sognato, meno male!

Una nuova forte scossa mi risvegliò improvvisamente e mi rigettò nell’orrore che da diverse ore stavo ormai vivendo. Mi buttai giù dal letto e diedi l’allarme generale: tutti si svegliarono e corsero fuori.
Io mi fermai un attimo sull’uscio e, con la mano poggiata sullo stipite della porta, percepì chiaramente le violente vibrazioni della scossa e compresi solo allora che quello che stava succedendo non era un incubo e che non sarebbe terminato tanto presto.

L’alba arrivò al termine della notte, come sempre, ma prendendoci quasi di sorpresa.
Dopo l’ultima scossa eravamo rientrati in casa ma il sonno era passato a tutti. Appena il chiarore del giorno si diffuse, andai a chiamare P. dall’altro lato del casolare. Anche da quelle parti la notte era stata una lunga e faticosa veglia.
Lentamente, sorse una mattina livida e fredda. Non c’era alcuna traccia del caldo e del sole abbacinante dei giorni prima.
Io e P. ci coprimmo per bene e ce ne andammo in giro per la campagna, cercando di chiarirci le idee confuse dagli avvenimenti della sera prima. Eravamo, però, pur sempre dei bambini e cominciammo a sfogliare avidamente il catalogo di giocattoli che avevo nelle mani al momento della scossa e che mia madre mi aveva portato da casa. P. era d’accordo con me che gli oggetti più belli erano, senza dubbio, le pistole spaziali, e stabilimmo che anche lui se ne sarebbe fatta regalare una, per giocare assieme.
Mentre stavamo bighellonando nei pressi della casa, arrivarono i miei nonni paterni. Nonna L. era ancora abbastanza sconvolta e, dopo aver preso un caffè ed essersi scaldati vicino al fuoco, ci raccontarono le loro avventure della sera prima, che io difficilmente potrò dimenticare.

Dopo la partita dell’Avellino e le chiacchiere con gli amici in piazza, mio nonno era tornato a casa.
Assieme a mia nonna avevano cenato e stavano guardando la televisione quando, improvvisamente, avevano sentito un fruscio, come un forte vento, far scricchiolare le imposte. Mia nonna aveva pensato ad un temporale e stava per andare a vedere, quando un boato aveva squarciato l’aria e il palazzo aveva preso a sollevarsi, abbassarsi e dondolare come un pendolo. Istintivamente, marito e moglie si erano abbracciati e, stretti l’un l’altro, avevano cercato di dirigersi verso la porta. Le scosse li sbatacchiavano da una parte all’altra del corridoio che sembrava essere diventato lungo chilometri. Ad un certo punto un altro rumore violento e cupo come un urlo. L’urlo della pietra e della carne che si spaccavano, si sbriciolavano in mille pezzi e crollavano, infine, fondendo la polvere e il sangue in un unico grumo di dolore. I miei nonni avevano pensato che il loro palazzo stesse crollando o che, in parte, fosse già crollato e stavano per raccomandare la loro anima a Dio, quando, per fortuna, la scossa aveva cominciato a scemare.
Una volta scesi in strada, si erano resi conto che era crollato un palazzo a meno di trenta metri da casa loro e che molti degli abitanti dovevano essere rimasti sotto le macerie. Era venuto giù anche l’ultimo piano di un palazzo di fronte, causando sicuramente due vittime, una persona che sembra stesse passando di lì per caso e un ragazzo che abitava nel palazzo e che, per primo, era corso fuori ed era stato travolto dalle pietre che erano cadute dall’alto.
Quelle scene orribili avevano sconvolto i nonni che, immediatamente, si erano preoccupati per la nostra sorte. E così, restando sempre abbracciati, avevano percorso le strade di Avellino in preda al caos, con il terrore crescente di arrivare a casa nostra e di trovarla ridotta in macerie.
Giunti dalle nostre parti, avevano tirato un gran sospiro: avevano incontrato dei nostri vicini che li avevano rassicurati sulle nostre condizioni. I nonni avevano deciso, quindi, di tornare in piazza e di passare la notte all’aperto con le tante persone che lì si erano rifugiate.
L’orrore non era terminato: la città era in preda al black out elettrico ma, la sia pur tremolante luce dei falò, accesi dai sopravvissuti, era stata sufficiente per rendersi conto che Via Cascino, un’altra traversa della piazza, il cui retro affacciava sugli strani giardini pensili sul lato posteriore della casa dei nonni, era ridotta ad un cumulo di macerie.
La cosa più terribile, però, era avvenuta quando, nel buio pressoché totale, nella confusione delle scosse di assestamento e nella disorganizzazione dei soccorsi che non si erano ancora visti, mio nonno e altre persone avevano percorso i cumuli di macerie alla ricerca di legno per alimentare i fuochi accesi in piazza.
Sotto i loro piedi si sentiva la gente sepolta urlare.

Durante la mattinata, anche se solo a sprazzi, tornò la luce e potemmo accendere la televisione e sentire i notiziari.
Venimmo così, finalmente, a sapere che non c’era stata alcun'eruzione del Vesuvio. La cosa non ci rallegrò più di tanto: la situazione, infatti, era anche peggiore di quanto temessimo. La sera prima si era verificato un terremoto d’inaudita violenza, con epicentro in Alta Irpinia, al confine tra le province di Avellino, Potenza e Salerno.
Le notizie giungevano frammentarie e confuse, molte strade erano interrotte e parecchi comuni isolati. L’organizzazione dei soccorsi stentava a mettersi in moto e i primi giornalisti che erano riusciti a raggiungere l’area del disastro (in seguito denominata “cratere”, in maniera estremamente significativa) avevano trovato montagne di macerie e scene di straziante disperazione. A causa dell’interruzione delle comunicazioni, mancavano dati certi sulla reale estensione della zona colpita, ma non potevano esserci dubbi sul fatto che si era trattato di una catastrofe.
I morti dovevano essere centinaia, forse migliaia. Bisognava organizzare i soccorsi nel più breve tempo possibile: servivano urgentemente tende, medicinali, cibo, coperte, vestiti e molte, moltissime bare per arginare il focolaio di possibili epidemie.
Inoltre si supponeva che ancora tante persone fossero vive sotto le macerie e occorrevano braccia e macchine per scavare fra quegli enormi cumuli. Un’idea più chiara, ma non meno agghiacciante, circa l’entità del disastro era offerta dalle riprese dagli elicotteri: l’Irpinia era letteralmente ridotta in macerie.
I soccorsi dovevano fare presto.

A peggiorare ulteriormente la già gravissima situazione, c’era il fatto che la terra non voleva saperne di smettere di tremare.
Il telegiornale disse che, dalla sera prima, i sismografi avevano registrato migliaia di scosse. Gli esperti le definivano d’assestamento e assicuravano che non ci sarebbero state repliche di forte intensità, ma i nostri nervi non volevano saperne di calmarsi e, ad ogni scossa che avvertivamo, il terrore ci attanagliava nuovamente.
Notizie preoccupanti giunsero anche dalla casa di P.: i nonni non riuscivano a mettersi in contatto con una loro figlia che, assieme al marito e ai figli, viveva in Alta Irpinia. La tv aveva citato il loro paese come uno dei maggiormente colpiti e la famiglia di P. stava cercando, disperatamente, di avere notizie.
Mio zio L., invece, che quella sera era di servizio in questura, tornò dal paese portandoci buone nuove: moglie e figlio stavano bene ed erano al sicuro. Lo zio ci fece capire che, lungo il percorso, aveva visto scene terribili; ma lui è sempre stato un tipo taciturno e non volle aggiungere molto altro.
Ormai a casa di mia nonna eravamo in tanti: ben undici persone sedettero all’ora di pranzo per una strana e ben triste tavolata, senza contare un’altra decina di persone, ospitata nell’altra metà del casolare. Nel pomeriggio, io e P. cominciammo a girovagare per la campagna. Era una giornata fredda e uggiosa, segno che l’insolita parentesi di caldo era ormai passata e che l’autunno irpino era ridiventato tale. Ogni tanto il silenzio della campagna veniva rotto dagli elicotteri che passavano a bassa quota sulle nostre teste. In quei giorni ne vidi tantissimi, soprattutto i grandi elicotteri militari a due eliche, che non avevo mai visto prima, se non nei film di guerra.
Per il resto, la campagna era tranquilla e silenziosa. Stando all’aperto, non si riuscivano ad avvertire le scosse d’assestamento, e fu facile, per noi ragazzini, dimenticare per un attimo le brutte avventure della sera prima e cominciare a ridere e scherzare. Certo, la giornata era fredda e brutta, ma la natura era ugualmente bellissima, altera e distaccata, rispetto alle tragedie degli uomini. Ad un certo punto realizzammo che non saremmo andati a scuola per parecchio tempo e cominciammo ad intravedere persino il lato positivo della situazione. Scendemmo lungo la collina coltivata a nocciole dai nostri nonni e giungemmo a poche centinaia di metri dalle prime case della città. Quella zona non aveva subito grossi danni ed era tutto così tranquillo da sembrare quasi normale. L’unico elemento che tradiva la situazione anomala, in effetti, era proprio l'eccessiva tranquillità: c’era troppo silenzio.
Un po’ intimoriti, tornammo indietro su per la collina e ricominciammo a giocare, arrampicandoci sugli alberi di nocciolo. Perdemmo così la cognizione del tempo e, quando tornammo a casa, ci rendemmo conto che la situazione era decisamente peggiorata. Per prima cosa ci sgridarono perché c'eravamo allontanati per troppo tempo, ci avevano cercati e si erano preoccupati. Noi ci scusammo ma, francamente, le lacrime della sorella di P. ci sembrarono un po’ esagerate.
Non stava piangendo per noi: erano riusciti finalmente ad avere qualche notizia dei parenti in Alta Irpinia.
Il palazzo era crollato e loro erano rimasti sepolti sotto le macerie.

Anche dal nostro lato della casa, la situazione non era per niente allegra.
C’erano state altre scosse, la luce era mancata di nuovo e i miei parenti avevano deciso che sarebbe stato più prudente non dormire in casa quella notte. Protestai, sostenendo che non ce n’era motivo, e mio zio T., per tutta risposta, con una torcia elettrica, illuminò l’antenna della tv, sul tetto della casa.
Ondeggiava. Continuamente.

Non ho mai dimenticato quell’immagine.
L’antenna che dondolava silenziosamente contro il cielo grigio scuro dell’imbrunire.
Era la dimostrazione, oggettiva e spaventosa, che, nonostante stando all’aperto non l’avvertissimo, sotto di noi la terra continuava imperterrita a tremare e a rinnovare di continuo l’incubo che da ventiquattrore stavamo vivendo. La decisione di accamparci all’aperto mi sembrò immediatamente un’ottima idea e, ancora oggi, dopo tanti anni, la sagoma delle antenne sui palazzi mi da un certo fastidio che non è solo motivato da ragioni estetiche.
A pochi metri dalla casa di mia nonna c’era, e c’è ancora, un piccolo garage, composto semplicemente da quattro lamiere poggiate su di una struttura di legno, a mò di capanna, con un lato aperto. Si decise che avremmo dormito là sotto e devo dire che gli adulti fecero dei veri e propri miracoli per stipare una decina di persone in una quindicina di metri quadrati. Il lato aperto fu in parte sbarrato con mezzi di fortuna e all’interno del garage, con brande, vecchie reti, materassi e coperte di fogge e dimensioni quantomeno eterogenee, riuscirono a preparare quattro o cinque letti. I posti non erano sufficienti per tutti, così gli adulti si arrangiarono alla meno peggio: un po’ coricati, un po’ seduti sui letti e su alcune sedie.
Nonna E., come al solito, fu eccezionale: accese un fuoco nei pressi dell’ingresso della baracca e passò tutta la notte, sveglia, a riattizzarlo e tenerlo sotto controllo. Noi ragazzi avemmo il privilegio di dividere un letto e ricordo vividamente che passai una strana e, a suo modo, memorabile notte con i piedi, non proprio freschissimi, di mio fratello piantati sotto il mento, il costante rumore dei tarli che rosicchiavano l’impalcatura in legno del garage a cullare il mio sonno agitato e un sacco di domande senza risposta che si agitavano nel mio cervello.
Cosa diavolo stava succedendo?
Quando sarebbe finita quella storia?
Quando sarei tornato alla mia vita normale?

Il giorno dopo, martedì 25, accaddero diverse cose importanti.
Innanzi tutto la nottata fredda e scomoda trascorsa nell’improvvisato container aveva dimostrato che la situazione stava diventando insostenibile, così tutti si dettero da fare per trovare una sistemazione migliore. I nonni paterni rimediarono temporaneo asilo in una scuola che era stata adibita ad ostello d’emergenza per i terremotati, e lì rimasero per alcune settimane, finché i tecnici del comune non dichiararono agibile il loro palazzo. Zio T. si trasferì dalla suocera che viveva in una contrada rurale alla periferia della città, e là trascorse il periodo dell’emergenza.
Per quanto riguarda noi quattro, invece, restammo da mia nonna E. ma decidemmo di non ripetere l’esperienza della nottata nella baracca e tornammo in casa, accadesse quello che doveva accadere.
Nel pomeriggio di quel martedì pensammo di fare una capatina in città, a vedere come fosse la situazione. Ero piuttosto emozionato. Dalla scossa di domenica sera, non ero ancora sceso in centro ed avevo un misto di curiosità e spavento.
Quello che vidi mi colpì profondamente. Avellino sembrava una città morta: i negozi erano chiusi e le strade vuote e silenziose. Dei carabinieri ci dissero di evitare di camminare in prossimità dei palazzi, per il rischio di distacco di cornicioni e detriti.
Il centro storico era un disastro. Molte case erano crollate e, in alcune aree, ci fu impedito l’accesso. La Torre dell’Orologio, il simbolo della città, era crollata in parte ed, in seguito, sapemmo che i detriti avevano schiacciato delle persone che fuggivano.
Dopo diversi anni, mio nonno C. mi ha raccontato un aneddoto che, ancora oggi, mi fa gelare il sangue nelle vene. Pochi mesi prima del terremoto, i miei nonni avevano cercato un altro appartamento in affitto, avendo ricevuto lo sfratto dal padrone di casa. Mio nonno aveva saputo che si affittava un bilocale nei pressi della Torre. Quando riuscì a trovare la persona che aveva messo l’annuncio, questa si scusò, dicendo che aveva locato l’appartamento nemmeno un’ora prima.
All’epoca mio nonno aveva maledetto la sua sfortuna, ma non era il caso. Il palazzo nei pressi della Torre, l’avrete già capito, sarebbe crollato.

L’immagine più agghiacciante di quel martedì pomeriggio in giro per la città devastata fu senz’altro Via Cascino, una traversa di Piazza Libertà, che era ridotta in un cumulo di macerie.
Ricordate il palazzo del mio parente, nel quale avevo, da piccolo, paura d’entrare? Si trovava proprio in quella strada che, da allora, divenne il simbolo delle distruzioni del terremoto ad Avellino. Per fortuna, i miei parenti non erano in casa o il loro nome si sarebbe aggiunto ad una lista fin troppo lunga.
Si raccontarono per molto tempo tanti aneddoti sulle persone che, in quella strada, vissero e morirono. Il più struggente riguarda una festicciola di compleanno che sembra si sia tenuta quella sera in uno degli edifici e, nella quale, sarebbero morti parecchi bambini.
Di recente mio nonno, che per un periodo della sua vita ha fatto anche il muratore, mi ha raccontato di aver lavorato nei cantieri che, nell’immediato dopoguerra, si occuparono della ricostruzione di Via Cascino. Con amarezza, mi ha detto che quelle case erano state costruite in maniera mediocre, con materiali di scarsa resistenza, per assecondare la fretta e l'ansia di ricostruzione post-bellica.
Ripensando alla facilità con la quale un’intera strada si sia ripiegata su se stessa, la cosa non mi ha stupito più di tanto.
Nel pomeriggio di martedì 25 Novembre 1980, davanti a quell’enorme cumulo di macerie, non potevo non pensare che, fino a pochi giorni prima, quella era stata una strada trafficata e piena di vita, nella quale spesso, avevo accompagnato mia madre e mia nonna a fare la spesa.
Ricordavo, e ancora ricordo, il forno nel quale mia nonna mi comprava sempre un panino caldo che mangiavo golosamente per strada; ricordavo il negozio di animali, con il continuo cinguettare dei canarini nelle gabbiette; ricordavo la polleria all’angolo; ricordavo il movimento di quella strada sempre affollata e, soprattutto, ricordavo, e ricordo tuttora, le ombre degli abitanti di quei palazzi che sbirciavo dal balcone sul retro di casa dei nonni nelle sere d’estate, cercando d’immaginare le loro storie.
Non sono mai riuscito ad indovinare quali potessero essere le loro vite, ma credo di sapere come possa essere stata la loro morte.

La sera di martedì accadde un episodio che, per me, costituì una sorta di svolta.
Di ritorno dalla città, con l’umore cupo per quello che avevamo visto, cominciammo a guardare in tv una delle tante dirette che la Rai dedicò, in quei giorni, al disastro che avevamo subito. Il giornalista si trovava a Lioni, credo, uno dei luoghi più colpiti. La telecamera inquadrava dei soccorritori che, alla luce di riflettori, scavavano tra enormi cumuli di detriti. Improvvisamente, l’agitazione dei presenti, il fuggi fuggi generale, e il cronista che, con voce concitata, annunciò che si stava verificando una scossa proprio in quel momento.
Noi tutti sbiancammo e, un attimo dopo, l’onda sismica arrivò e fece tremare il pavimento sotto i nostri piedi.
Fu una scossa lieve ma la cosa nuova e, per certi tratti sconvolgente, fu che la televisione ci aveva annunciato in diretta il suo arrivo. Altro che “Real Tv”.
In quell’occasione percepì anche la terribile grandezza del terremoto, capace di percorrere gli oltre cinquanta chilometri da Lioni ad Avellino, in meno di un secondo.
Non so cosa scattò nella testa del bambino che ero ventidue anni fa: forse l’improvvisa consapevolezza di non essere nient’altro che un microbo sulla superficie della terra, forse una certa sindrome d’onnipotenza, nata dall’avere superato l’ennesima prova, o forse ero semplicemente stanco di essere terrorizzato. Il fatto è che, da quella sera, smisi di avere paura del terremoto, andai a letto serenamente, ed il resto della permanenza a casa di mia nonna divenne una sorta di vacanza.

Nei giorni successivi, a casa di P., giunsero ottime notizie. I familiari rimasti sotto le macerie erano stati tratti in salvo. La loro vicenda può essere considerata rappresentativa di tante altre di quei giorni. Loro abitavano in un palazzo di recente costruzione in cemento armato, letteralmente sbriciolato dal terremoto, e devono la loro fortunata e fortunosa salvezza al fatto che abitavano al settimo ed ultimo piano dell’edificio, quello più prossimo, quindi, alla sommità delle macerie. L’episodio dimostra chiaramente come il terremoto dell’80 non distrusse solo edifici vecchi e fatiscenti ma anche edilizia recente. Al di là delle ovvie responsabilità di chi aveva costruito male, bisogna ricordare ancora una volta che l’Irpinia, e l’Italia intera, furono colte totalmente alla sprovvista da un evento sismico di quella portata. Non esistevano mappe del rischio sismico e, di conseguenza, non esistevano parametri precisi per la costruzione di nuovi fabbricati, né per la ristrutturazione di quelli preesistenti. Un’altra assurda ed imperdonabile carenza che lo stato dimostrò di avere in quei giorni fu la mancanza d’organizzazione della protezione civile. Il “Mattino” di Napoli, il maggiore quotidiano del sud, in quei terribili giorni, titolò in maniera eloquente “FATE PRESTO”. La macchina dei soccorsi aveva, infatti, chiaramente dimostrato di essere un diesel e si mise in moto con lentezza esasperante. Il disastro, inoltre, si era verificato in una zona dell’Italia meridionale nota a stento per la squadra di calcio in serie A e ci furono episodi assurdi con i soccorritori che non sapevano letteralmente dove andare. Ricordo vividamente che alcuni camion si fermarono nei pressi della casa di mia nonna e ci chiesero che strada dovessero imboccare per S.Mango sul Calore, un paesino che era stato uno dei centri medioevali meglio conservati dell’Irpinia e che, ormai, era ridotto ad un ammasso di macerie. E’ indubbio che moltissime di quelle duemilasettecentotrentacinque vittime avrebbero potuto avere salva la vita con una prevenzione adeguata e, in mancanza di essa, tante sarebbero potute essere recuperate vive dalle macerie, se i soccorsi si fossero mossi prima. Mia madre mi ha raccontato di aver assistito, qualche giorno dopo il 23, al recupero di una persona dalle macerie. Il poveretto era stato tratto fuori tra gli applausi dei presenti e, forse per una reazione nervosa, era saltato in piedi e aveva cercato di scappare. Fermato dagl’infermieri, fu fatto stendere su una barella, ma il suo cuore, evidentemente, era troppo provato, perché era spirato dopo qualche minuto. Quella persona, e tante altre, si sarebbero sicuramente salvate con dei soccorsi più rapidi. Non intendo in questa sede approfondire le molteplici e fin troppo palesi mancanze dello stato in occasione del terremoto dell’80: il mio vuole essere solo un reportage sul filo della memoria; ma intendo, comunque, sottolineare come quel terribile sisma sia stato il punto di partenza per l’organizzazione di una protezione civile più veloce ed efficiente e per la stesura di una mappa del rischio sismico in Italia che, seppure con le deficienze palesate nel recente terremoto in Molise, è sicuramente uno strumento prezioso per dettare norme e prevedere interventi. Insomma, se l’Umbria e il Molise hanno ricevuto interventi di soccorso migliori rispetto a quelli che ricevemmo nel 1980, questo è dovuto anche e soprattutto al tanto, troppo, sangue versato da noi irpini.
Domenica 30 Novembre, ineluttabilmente, si giocarono le partite del campionato di calcio di serie A. Lo spettacolo doveva continuare, non c’era dubbio, e mio fratello ed io non ci facemmo certo mancare la radiocronaca della partita. Quella domenica l’Avellino giocò fuori casa, contro la Pistoiese: era un incontro importante, la nostra squadra era in piena rimonta e veniva da una vittoria esaltante. Purtroppo gli eventi della settimana prima non potevano non avere lasciato traccia nei nostri giocatori che si erano anche allenati poco e male, visto che il “Partenio” era stato dichiarato inagibile fino ad ulteriori controlli. Ricordo che ci fu un minuto di raccoglimento in tutti gli stadi e l’Avellino giocò con il lutto al braccio. Come prevedibile, perdemmo quella partita ed anche la successiva, che giocammo in campo neutro a Napoli contro l’Udinese. La classifica era ridiventata pessima e tutti cominciammo a disperare di poterci salvare; eppure, nonostante i cinque punti di penalizzazione, il terremoto, l’indisponibilità dello stadio per alcune domeniche, la nostra squadra riuscì a compiere un miracolo e, grazie ad un esaltante finale di campionato, evitammo anche quell’anno la retrocessione in serie B. Fu un’enorme soddisfazione e la dimostrazione, un po’ campanilistica, che non è facile piegare noi irpini. Dal momento che di idioti in giro ce ne sono a bizzeffe, in molti campi di calcio, cominciammo a ricevere cori di scherno del tipo “Terremotati, terremotati”, o anche il gettonatissimo “Baraccati, baraccati”. Che fossimo effettivamente terremotati e, in molti casi, baraccati era un dato di fatto indubitabile; che tutto ciò costituisse un’offesa, era cosa quantomeno opinabile. Quello che infastidiva di quei cori era la sadica cattiveria che traspariva dagl’imbecilli che li pronunciavano e il fatto che, ascoltandoli, ti veniva voglia di scendere allo stesso livello e di augurare alla loro terra e alle loro famiglie di vivere la nostra stessa tragedia. Seguo tuttora il calcio e sarò sempre un gran tifoso dell’Avellino, eppure mi chiedo ancora oggi: vale la pena di rinunciare alla propria umanità, per una partita di pallone?
Mercoledì 3 Dicembre tornammo definitivamente a casa nostra. Bisognava ricominciare a vivere normalmente, o perlomeno dovevamo provarci. Quel mercoledì era una giornata uggiosa; la pioggia aggiungeva una nota di tristezza al fatto che avrei dovuto abbandonare le scorribande in campagna col mio amico P. Inoltre mancavo da casa dalla sera del 23 e avevo un minimo d’inquietudine al pensiero di tornarci. La prima cosa che notai furono le vaste lesioni che incorniciavano le pareti delle scale. I tecnici che avevano controllato l’edificio avevano detto che si trattava di crepe superficiali, ma la cosa non è che mi tranquillizzasse più di tanto. Le lesioni, anche se decisamente meno vistose, erano presenti anche all’interno dell’appartamento e, per diversi giorni c’impegnammo in una sorta di caccia al tesoro, per vedere chi ne riuscisse a scovare di più. Inevitabilmente il ritorno a casa mi riportò alla mente la terribile sera del 23 e la fuga susseguente. La prima notte fu un po’ dura tornare a dormire nel mio letto, con la consapevolezza di ritrovarmi di nuovo al quarto piano di un edificio lesionato, piuttosto che nella quiete della casa di mia nonna, assopito accanto allo scoppiettare del camino e a due passi dall’esterno e da un’eventuale salvezza. Lentamente, nei giorni successivi, riuscimmo a tornare ad una relativa normalità. Erano ancora parecchi i nostri vicini che continuavano a restare accampati all’aperto, in una sorta di tendopoli allestita in una traversa vicino casa ma, progressivamente, tutti ritornarono nei loro appartamenti. Anche i miei nonni paterni tornarono nella loro casa in Via Due Principati. Ricordo l’orrore di affacciarmi sul retro del loro palazzo e vedere ciò che restava dei palazzi di Via Cascino: quel poco che era rimasto in piedi giaceva in un silenzio di tomba e mai questa definizione fu calzante come in quel caso. Avellino continuava ad essere in condizioni disastrose e così rimase per molto tempo. Io, però, ero un bambino, e a dieci anni è francamente troppo presto per vivere con la morte perennemente nel cuore; così fui quasi contento, quando ricominciò la scuola, un altro piccolo passo sulla strada di una riconquistata normalità. Per fortuna ritrovai tutti i miei compagni sani e salvi: la nostra scuola si trovava in una zona della città che non aveva subito distruzioni e, che io sappia, non c’erano state vittime. Quasi a ribadire l’esigenza collettiva di tornare ad una vita normale, anche quell’anno arrivò il Natale. D’accordo: si trattò di un Natale decisamente in tono minore ma, per noi ragazzini, era in ogni caso il gradito momento di esorcizzare le paure vissute con qualche sacrosanto giocattolo. Quell’anno, fatto praticamente senza precedenti, fu mio padre, il giorno della vigilia, ad accompagnarmi al negozio di giocattoli e a comprarmi una macchina radiocomandata, per la verità estremamente rudimentale, ma che all’epoca, forse perché sbalordito dall’iniziativa paterna, mi sembrò essere un incredibile prodigio della tecnica. Come ogni anno, passammo la vigilia dai nonni paterni e il 25 da mia nonna in campagna. Non ricordo, francamente, cosa facemmo a S.Silvestro, ma ricordo chiaramente che nessuno ebbe rimpianto dell’anno appena trascorso.
Il 14 Febbraio 1981 io, come al solito, avevo l’influenza. Ho già raccontato che da piccolo, in inverno, quel problema, per me, era la regola, e non l’eccezione. Crescendo la situazione è abbastanza migliorata, ma la faringe continua ad essere il mio punto debole e l’umidità di Avellino non contribuisce a facilitare le cose. In quei giorni, poi, l’amabile clima della mia città si era messo davvero d’impegno: c’era la neve e faceva un freddo boia. Verso le sei di sera, io ero imbacuccato sul divano, con qualche linea di febbre, a guardare la televisione. Erano passati quasi tre mesi dal 23 Novembre e il terremoto sembrava ormai essere una brutta avventura che c'eravamo lasciati alle spalle. Improvvisamente, come nei peggiori deja-vu, tutto ricominciò a tremare ed ondeggiare. Non ci potevo credere: stava succedendo di nuovo! L’incubo non era finito, la terra tremava ancora, avremmo ricominciato di nuovo tutto da capo? La scossa non durò moltissimo ma fu abbastanza forte e si verificarono scene di panico, lungo le scale, non dissimili da quelle di tre mesi prima. Questa volta, però, noi riuscimmo a mantenere la calma, anche perché io avevo la febbre e scendere in strada con la neve non era proprio il caso. Così restammo in casa e facemmo compagnia ad un’anziana vicina che aveva anche lei scelto di non scappare. Dopo pochi minuti la tv diede informazione di ciò che era accaduto: la nuova scossa era stata del sesto o settimo grado della scala Mercalli ed aveva avuto epicentro nella zona di Avella, ad una trentina di chilometri da Avellino e all’esatto opposto della zona del cratere. Si trattava, quindi, di un evento probabilmente non ricollegabile al sisma di tre mesi prima. “Ngopp’o ccuotto, l’acqua volluta”, si dice dalle mie parti; “Piove sul bagnato”, se preferite. Case già fortemente danneggiate crollarono e ulteriori lesioni si aggiunsero a quelle agibili. Ricordo chiaramente che, quella sera, compresi una volta per tutte che quella non sarebbe stata l’ultima scossa di terremoto che avrei avuto il dispiacere di provare; compresi che Avellino si trovava in una zona sismica e che sarebbe stato indispensabile imparare a convivere con quel dannato fenomeno; compresi, infine, di provare, in quei momenti, un sentimento del tutto inedito nei confronti del terremoto. Ero incazzato. Ero decisamente incazzato: non ci sono termini per definire meglio ciò che provavo nei confronti di quello che stava accadendo da tre mesi. Perché diavolo continuava quell’incubo? Perché non ci lasciava in pace? Quella sera giurai solennemente a me stesso che, un giorno, sarei andato via da quella terra che continuava a tremare e a sconvolgere le nostre vite. Non sono mai riuscito a mantenere la promessa, perché, chiamatemi pure fesso, mi sono reso conto di amare questa maledetta terra ballerina molto più di quanto possa riuscire ad odiarla.
“Emergenza”, fu la definizione escogitata per definire le prime fasi del post-terremoto. “Interminabile emergenza”, preferirei definirla io. Il problema è che il terremoto del 23 Novembre 1980 è stato un banco di prova troppo arduo per tutti. Troppo arduo per chi non è riuscito a sopravvivere; troppo arduo per chi ha dovuto subire i disagi di un’interminabile ricostruzione; troppo arduo per la disorganizzazione della Protezione Civile; troppo arduo per le capacità degli scienziati di prevedere gli eventi e minimizzarne gli effetti; troppo arduo per l’incapacità dei vari governi di gestire una situazione così complessa. Il terremoto è stato, però, anche un’occasione appetitosa, per molti, di arricchirsi alla faccia dei morti e dei senza tetto. E’ ovvio che i fondi per la ricostruzione hanno attirato le avidità di molti. Non sono a conoscenza di fatti specifici ma posso ben immaginare le sozzure che si sono consumate in quegli anni. Posso immaginare la malavita organizzata che metteva le mani sugli appalti della ricostruzione, i politici che scalavano il potere grazie alle clientele conquistate con le promesse ai senza tetto, i tanti industriali e speculatori (soprattutto del nord) che hanno aperto fabbriche in Irpinia sfruttando i fondi per lo sviluppo delle aree colpite e hanno dichiarato subito fallimento, fuggendo col bottino, le false invalidità riconosciute a chi si approfittava della situazione, i tanti imbrogli con i quali vere e proprie baracche sono state ricostruite in forma di villette, gli obbrobri architettonici progettati da pseudoprofessionisti e approvati da giunte comunali idiote o corrotte o entrambe le cose. Potrei continuare all’infinito, in un carosello che ha coinvolto tutti gli strati della popolazione, dal politico disonesto all’industriale senza scrupoli, dall’amministratore incapace all’architetto da quattro soldi, dal camorrista avido al classico signor nessuno che, con l’italica arte di arrangiarsi, si è approfittato della situazione. “Irpiniagate” è stato definito lo scandalo degli sprechi di denaro pubblico in seguito al terremoto dell’80, l’ennesimo schiaffo in faccia ad una terra, la provincia di Avellino, che ancora piangeva i propri morti. Inutile nascondere la testa sotto la sabbia: in Irpinia gli sprechi e gl’imbrogli ci sono stati, come del resto, probabilmente, si sarebbero verificati in qualsiasi luogo nelle stesse condizioni. Il problema è che il termine “Irpiniagate” è diventato sinonimo di “Scandalo della ricostruzione in Irpinia”, e chi lo pronuncia non si rende conto che la maggior parte degli sprechi di denaro pubblico sono avvenuti in altre aree. Si, perché i governi dell’epoca inclusero nelle zone disastrate anche luoghi lontanissimi dall’epicentro, nelle province di Napoli, Caserta, Foggia, Benevento, addirittura Matera, che non avevano subito che impercettibili danni. Il grosso dei fondi stanziati sono andati a finire in questi luoghi che hanno vampirizzato la tragedia che l’Irpinia ha subito e noi, ancora oggi, dobbiamo vivere l’affronto di sentir parlare d’Irpiniagate.
I primi tempi dopo il terremoto sono stati gli anni della provvisorietà. Dappertutto vedevi palazzi inagibili e disabitati, che non sapevi se sarebbero stati restaurati o abbattuti. Ricordo Corso Umberto I, un’arteria del centro storico ridotta ad una sorta di Pompei del 1980, silenziosa, immota e totalmente inagibile, sembrava quasi trattenere il respiro, nell'attesa che gli uomini decidessero il suo destino. Ricordo i cumuli di macerie che, una volta rimossi e lavato il sangue dei morti, lasciavano degli attoniti spazi vuoti, in cui, progressivamente, la vegetazione riconquistava il terreno perduto sugli uomini. Ricordo i prefabbricati leggeri che furono costruiti per ospitare i senzatetto durante la cosiddetta “emergenza” e che, in realtà, hanno costituito, per più di dieci anni, veri e propri quartieri per migliaia di persone. Forse proprio i prefabbricati, leggeri e pesanti, costruiti nel dopo-terremoto, possono dare un’idea chiara della sensazione di provvisorietà vissuta nella mia città (e provincia) per buona parte degli anni ’80. Le centinaia di prefabbricati leggeri, spuntati come funghi, erano delle dignitose casette di legno, roventi d’estate, gelide d’inverno e probabilmente malsane per la mai del tutto chiarita presenza di fibre d’amianto nella struttura. Oltre a fungere da abitazioni familiari, i prefabbricati leggeri ospitarono anche istituti scolastici ed esercizi commerciali sfollati da edifici inagibili. Il risultato fu che oltre agli insediamenti abitativi, posti di solito nell’immediata periferia, il centro cittadino si riempì di prefabbricati adibiti a negozi che, per più di dieci anni, hanno ingombrato marciapiedi e deturpato l’aspetto della città. Dopo i prefabbricati leggeri, invece di procedere alla costruzione di edifici definitivi, si è preferito (per motivi che posso solo immaginare) passare ad una “Seconda fase dell’emergenza”, con la costruzione dei prefabbricati pesanti, degli obbrobri a più piani, con pareti di cartongesso spesse come sottilette. Come le sottilette, del resto, questi pseudoedifici avevano anche loro una data di scadenza: in sostanza non si trattava di edifici costruiti per avere una lunga durata nel tempo ma, dopo un certo numero di anni, sarebbero dovuti essere smantellati, creando una nuova situazione d’interminabile precarietà. Ad Avellino esistono ancora due o tre quartieri costituiti da questi orrori a quattro piani. Il più tremendo si chiama Contrada Quattrograne e si trova all’estrema periferia della città, lontano dagli occhi e dalle coscienze di chi ha escogitato quell’aborto. Un’enorme area verde è stata sbancata per costruire quella sorta di discarica umana, nella quale sono stati confinati i terremotati più poveri e sfortunati. Che non si dica che Avellino è una città fuori del tempo: anche noi, finalmente, abbiamo il nostro quartiere ghetto.
Gli anni ’80 sono volati via, lontano, e con essi, la mia adolescenza. Non so, francamente, se sia giusto rimpiangerli, come sempre più spesso mi capita di fare. Si dice che il tempo cancelli le amarezze, lasciando solo i ricordi piacevoli. Probabilmente, è proprio questo che deve essere accaduto ai miei anni ’80: con il passare del tempo ho dimenticato quanto fossero ipocriti, perbenisti e fasulli quegli anni e, oggi, di essi ricordo solo i lustrini e le paillettes di un decennio ottimista ed epicureo. Per rendersi conto di quanto fosse finta la spensieratezza di quegli anni, è sufficiente andare a rivedersi “The Day After”, il mediocre film del 1983 con il quale Hollywood decise di mostrare al mondo i possibili effetti di un conflitto nucleare. Un ragazzino che dovesse vederlo oggi, probabilmente s’annoierebbe, ma per noi che lo vedemmo all’epoca, con la guerra fredda in corso e la minaccia dell’olocausto atomico sospeso sulla testa, ci fu assai poco da ridere. Gli anni ’80 sono stati anche gli anni dell’aids, di Ronald Reagan e Margareth Tatcher, di Bettino Craxi, del trionfo dell’immagine contro la sostanza, dei Duran Duran, delle felpe “Best Company”, dei paninari, del Jovanotti decerebrato degli esordi, dei jeans firmati, dell’edonismo a tutti i costi, dell’ascesa di Berlusconi e delle tette delle ragazze di “Drive in”. Insomma, a parte le tette, c’era ben poco di cui essere allegri e, infatti, i miei anni ’80 non sono stati particolarmente spensierati.

“E la vita continua” s’intitola un bellissimo film di Kiarostami, che racconta dei superstiti di un terremoto in Iran. Diventando grande mi sono sempre più convinto che la vita vinca sempre; e che l’errore più grande che noi uomini possiamo commettere è quello di considerare che il mondo abbia inizio con la nostra nascita e finisca con la nostra morte. Può sembrare un’ovvietà, ma se ci pensate bene, forse la causa prima della nostra sofferenza di esseri umani è quella di considerarci il centro dell’universo. Se riuscissimo a renderci conto che il giorno della nostra morte nasceranno nel mondo migliaia di bambini, come noi siamo nati nel giorno in cui altrettante persone stavano morendo, forse capiremmo definitivamente che “La vita continua”, che facciamo parte di un tutto e che la nostra esistenza non è il perno attorno cui ruota il mondo. Osservate i ruderi di qualche vecchia casa, lasciati da molti anni in abbandono. Forse penserete che tra quelle rovine avevano vissuto delle persone, avevano giocato bambini, si erano consumati amori e tragedie. Forse diverrete tristi, pensando che tutta la vita della quale erano state impregnate quelle pietre, sia stata soffiata via dal vento e lavata dalla pioggia. Eppure, se osservaste con attenzione, vi rendereste conto che quelle pietre sono pulsanti di vita, nel muschio che le ricopre, nei ciuffi d’erba che spuntano dai sassi, dagli alberelli che stanno crescendo tra le rovine, negl’insetti che ronzano tutto intorno, nella natura che segue il suo corso meravigliosamente altera ed indifferente alla meschinità degli affanni umani.

Si… la vita continua.


gio lug 17, 2008 6:59 pm
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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Tristezze e commozione...non ci sono altre parole...io quel 23 novembre 1980 non c'ero...ma in quella tragica sera a Sant'Angelo dei Lombardi ho perso 2 zii e mia nonna...non ho mai avuto il coraggio di chiedere a mio padre notizie di quel giorno!
Enrì grazie mille x qst memoriale...23 NOVEMBRE 1980....PER NON DIMENTICARE!

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ven lug 18, 2008 2:15 pm
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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Biancoverde ha scritto:
Tristezze e commozione...non ci sono altre parole...io quel 23 novembre 1980 non c'ero...ma in quella tragica sera a Sant'Angelo dei Lombardi ho perso 2 zii e mia nonna...non ho mai avuto il coraggio di chiedere a mio padre notizie di quel giorno!
Enrì grazie mille x qst memoriale...23 NOVEMBRE 1980....PER NON DIMENTICARE!


:great: Quoto :great: io purtroppo c'ero ero nato da pochi mesi, e per puro caso mi sono salvato, perchè quel giorno a differenza degli altri mia madre aveva mal di denti e mi porto da mia nonna in paese. Meno male perchè nella casa dove abitavamo crollo il tetto della camera da letto e la mia culla ne usci distrutta.

E un momento triste, tragico e doloroso, ma dimostra ancora una volta come il popolo irpino ha saputo reagire a queste avversità con spirito di sacrificio, sofferenza e tanta tanta voglia di "RINASCERE" :ciao: :ciao: :ciao:

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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Ancora una volta complimenti a te Lone! ben scritto e con molti spunti di riflessione. Non aggiungo altro. Una tragedia che ha colpito tutti noi da vicino. Anche io avevo dei parenti a Sant'Angelo dei Lombardi che per fortuna non sono morti.

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sab lug 19, 2008 12:52 pm
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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Non ho parole, davvero...

Una ricostruzione a 360° di ricordi, emozioni, sensazioni che vanno ben oltre l'evento in sè. Una lucidità, una riflessività, una meticolosità, nel ricostruire l'intero contesto, da antologia.

Tu hai talento (oltre che un notevolissimo bagaglio culturale), Enri'. Io te l'ho sempre detto...


dom lug 20, 2008 4:38 pm
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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
"... Il grosso dei fondi stanziati sono andati a finire in questi luoghi che hanno vampirizzato la tragedia che l’Irpinia ha subito e noi, ancora oggi, dobbiamo vivere l’affronto di sentir parlare d’Irpiniagate...



Strasacrosanto!

E Napoli, al solito, ha divorato gran parte della torta...


dom lug 20, 2008 4:55 pm
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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Complimenti Lone, inimitabile come sempre :great:

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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Davvero unico !! quoto in pieno !!! e chi se lo dimentica +........

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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
L'ho letto tutto, in due tranches, ma l'ho letto tutto.
Mi sorprende la dovizia di particolari e di sensazioni con la quale racconti non solo questi eventi drammatici, ma anche, in generale, tutta la tua infanzia.
Non mi sorprende per niente, invece, la tua proprietà di linguaggio, ben nota fin dai tempi della scuola.
Per ovvi motivi, speravo di trovare in questo racconto anche ricordi degli anni '80...invece ti sei fermato prima.

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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Lone complimenti..... è da brividi!!! :great: :great: :great:

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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
http://it.youtube.com/watch?v=BCtecXR3rJc

http://it.youtube.com/watch?v=vRAKO24yD ... re=related

http://it.youtube.com/watch?v=YVUSaSKiB ... re=related

http://it.youtube.com/watch?v=gOXXKXJq_ ... re=related

http://it.youtube.com/watch?v=jyRPiIl9V ... re=related


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http://it.youtube.com/watch?v=FSYhkmYk7DU

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Bravissimo....mi sn commosso !! :great:

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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Nn c'è ke dire..commuovente.Per me ke nn l'ho vissuto,e ke più volte ti avevo chiesto informazioni su questa disgrazia è stato un colpo al cuore,ma ora posso dire ke qualcosa ho capito,ke qualcosa so..grazie Lone..

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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
Ciò che mi colpisce del tuo scritto è la freddezza analitica che si nasconde dietro il velo, solo apparente, di nostalgia, il rigore fulminante dei dettagli, la precisione dei particolari, la poesia di certi passaggi privati. Bisognerebbe decidere cosa vuoi farne: diario, testimonianza di un tempo, prova di scrittura per passaggi più importanti. Credo che ogni prospettiva ti sia aperta - lascia stare la sociologia del tempo, però, che appartiene ad altri e appesantisce la scrittura. Mi auguro di leggerti ancora con lo stesso piacere, nel futuro, una volta che avrai deciso la direzione.
Con affetto e stima sinceri
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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
enri me lo sono riletto più di una volta...

sai la stima ke provo x te...dopo quest'analisi fredda lucida ma allo stesso tempo piena di pathos sono ancora + contento di averti conoasciuto...

il messaggio è chiarissimo...nn dimentichiamo quello ke abbiamo passato xkè ci servirà x continuare a crescere :ciao:

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mer ago 20, 2008 8:23 pm
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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
LONE ,HAI SCRITTO UN MEMORIALE ,CHE FAREBBE INVIDIA AI MIGLIORI SCRITTORI ,AVENDO TU A QUEL TEMPO SOLO 10 ANNI .HAI UNA MEMORIA DA ELEFANTE COME SI SUOL DIRE PER RICORDARTI TUTTO ANCORA COSI CHIARAMENTE ,PARTENDO DALLA PARTITA AVELLINO - ASCOLINO ,DELLA DISCUSSIONE TRA L'AMICO DI TUO NONNO E LA MOGLIE CHE COME DICI NON AVREBBE PIU`RIVISTO, IO NON HO VISSUTO L'ESPERIENZA DEL 23 NOVEMBRE ,PERCHE`NON ERO A CASA MIA MA ERO A 2000 KM DI DISTANAZA ,E TI GARANTISCO CHE NON E`UN ESPERIENZA DA FARE ,TU DICI CHE A CASA DI TUA NONNA ACCENDI LA RADIO PER ASCOLTARE LA PARTITA ,O PER AVERE NOTIZIE ,ED AVRESTI POTUTE AVERLE SUBITO DI PERSONA SOLO SE QUALCUNO SI SAREBBE RECATO IN CENTRO ,MA IO DI NOTIZIE NON NE RICEVEVO ED E` STATO BRUTTO STARE A PIANGERE DA SOLO SUL LETTO ASPETTANDO DI SAPERE QUALCOSADEI FAMILIARI .IL PROBLEMA L'HO RISOLTO NEL FINE SETTIMANA PRENDENDO IL PRIMO AEREO PER L'ITALIA .E PENSA CHE TALMENTE CHE ERO DISORIENTATO DALLA TENSIONE DI SAPERE COSA MI ASPETTASSE AL MIO ARRIVO,A ROMA AVEVO DIMENTICATO DI FARE LA CARTA D'IMBARCO PER NAPOLI.E SOLO GRAZIE ALLA COMPRENSIONE DEL' EQUIPAGGIO CHE AVEVA PORTATO L'AEREO A ROMA SONO POTUTO SALIRE A BORDO ,COMUNQUE IO NON HO PERSO FAMILIARI SOLO LESIONI ALLE FONDAMENTA DELLA CASA MA NIENTE DI GRAVE .COMUNQUE VOGLIO DIRTI CHE DOPO TUTTO QUELLO CHE LA NOSTRA TERRA HA PASSATO QUEL 23 NOVEMBRE DI 28 ANNI FA QUALCUNO NON HA IMPARATO NIENTE ,E QUI MI RIFACCIO ALLA TUA PARENTESI A CUI ALLUDI CHE QUANDO ANDAVI ALLO STADIO DOPO LA TRAGGEDIA SENTIRSI CHIAMARE TERREMOTATI O BARRACCATI TI DAVA FASTIDIO ,IO MI SON TROVATO NELLA TUA STESSA SITUAZIONE ,QUALCHE ANNO FA CAMPIONATO DI SERIE C AVELLINO-FERMANA ERO IN CURVA SUD LA CURVA DOVE SPESSO SI TROVANO ANCHE PARECCHIE PERSONE CHE FREQUENTANO IL FORUM ,E SENTIRE VERSI DI SCHERNO VERSO I TIFOSI DELLA FERMANA ,TIPO TERREMOTATI ECCETERA ,IN PAROLE POVERE LE STESSE CHE SENTIVI TU ,IO MI SONO VERGOGNATO.IO TI FACCIO SOLO I MIEI MIGLIORI AUGURI CHE TU UN GIORNO TROVI LA FOIRZA E LA VOLONTA DI SCRIVERLO UN LIBBRO E PUIBBLICARLO,VISTO CHE ORMAI CI PROVANO TUTTI E QUALCUNO NON HA LA STOFFA DELLO SCRITTORE ,MA TU A MIO PARERE FARESTI SUCCESSO .UN SALUTO A TUTTI DA PARTE DI GULDENLUPO :angel: :boh: :angel: :great: :angel: E FORZA :clapclap: :mrgreen: LUPIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIII :great: :mrgreen: :clapclap:


mar ago 26, 2008 2:02 pm
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Messaggio Re: Per non dimenticare. Il mio memoriale sul terremoto del 1980
lone complimenti :great: :great: leggendo questo racconto mi sn venuti i brividi a dosso, davvero un racconto commuovente e riflessivo, fa capire lo stato d'animo delle persone in quei istanti tragici, io quel giorno nn c'ero, nn ero ancora nato per fortuna, in questi anni ho chiesto ai miei genitori di quella tragedia, ma nn hanno avuto la forza di raccontarmelo, però leggendo questo racconto finalmente ho capito, quanto ha sofferto il popolo irpino e di come è stato difficile ricominciare........
lo sbaglio più grande che un umano può fare e dimenticare, da queste tragedie ci si impara a vivere, bisogna ripartire sempre, nn si deve mai mollare davanti ad un ostacolo, anche se questo ostacolo è insuperabile.
lone puoi scrivere un libro, hai talento................ :ciao: :ciao:

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D'AGOSTINO VATTENE


dom nov 23, 2008 7:05 pm
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